IL CONVENTO E LA GROTTA DI S. ALESSANDRA
(TERRITORIO DI ROSOLINI)
LA SPETTACOLARE PARETE ROCCIOSA DEL “CONVENTO”
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PIANTA DA S. GIGLIO
Il primo a parlare di questo “complesso di escavazioni, dagli indigeni denominato “u cummientu”, è il Minardo (Cava d’Ispica, 1905), seguito dal Moltisanti (Ispica, 1950). “Il nome è dovuto”, egli dice, “all’esistenza di tracce di architettura chiesastica e di un sacello dedicato al culto di S. Alessandra le cui pareti sono decorate da certi dipinti oggi quasi del tutto scomparsi, ed abbellite da varie incrostazioni stalattitiche”.
Il “Convento” presenta 5 livelli sovrapposti di grotte, collegati da scalette scavate nella roccia. Il piano rialzato è formato da un solo vasto ambiente di forma irregolare in cui si aprono una nicchia nel lato sinistro e due cellette di fronte, una più piccola rettangolare e l’altra col lato sinistro arcuato. Potrebbe essere un luogo di riunione della comunità cenobitica. Il primo piano è articolato lungo un corridoio esterno sul quale si aprono alcune cellette di varia forma, che sembrano caratteristiche di un convento o monastero. Il secondo piano è disposto attorno a un camerone centrale, che presenta nel lato destro tre cavità rotonde simili a quelle della Spezieria; poteva servire per oratorio, come l’ambiente simile del complesso rupestre di Cava Bauly, in territorio di Palazzolo. Dello stesso parere è anche l’archeologo Lorenzo Guzzardi (1982) che rileva: “ E’ nettamente distinguibile il piano per la riunione con una “cathedra” e gli altri per le celle dei monaci e per i magazzini”.
A breve distanza si trova un ambiente composto di due vani comunicanti Nel primo ci sono ancora pochi resti dei pannelli di cui parla il Minardo. Il secondo ambiente è caratterizzato da una larga buca nel pavimento, su cui si raccoglie dell’acqua, che defluisce poi all’esterno tramite una cabaletta scavata nella roccia. Dai contadini del luogo è detta “a rutta ra rugna” (grotta della scabbia), frequentata fino a tempi recenti, per la credenza che l’acqua che conterrebbe zolfo, possa curare la scabbia. Invero non c’è alcuna sorgente e l’acqua filtra attraverso il calcare gocciolando dall’alto, come avviene nelle cavità carsiche stalattitiche; né c’è odore e traccia di zolfo. D’altronde il sito geologicamente fa parte della “Formazione Ragusa”, che è calcarenitico-marnosa, in cui non c’è traccia della serie gessosa-solfifera (Geologo G. Monaco).
Questa santa Alessandra, alla luce delle attuali conoscenze, in Sicilia si riscontra solo in questo sito e in un’altra chiesetta rupestre del modicano ora trasformata in cisterna. L’archeologo Aldo Messina (Le chiese rupestri del Val di Noto, 1994) opina che si tratti di Alessandra, contemporanea di S. Giorgio, martire assieme ai compagni Apollo, Isacco e Cordato nel 303, sotto Diocleziano, di cui sarebbe stata la moglie. Il culto di questi martiri fu introdotto dal Vescovo di Guadix in Spagna solo nella sua diocesi nel 1629, e da questa diocesi, secondo il Messina, sarebbe giunto dalle nostre parti. Ma la venerazione di questi santi è molto più antica, come è confermato dai Sinassari orientali e quindi poteva essere stata introdotta nelle nostre contrade in età bizantina. Ci sono poi altre tre Alessandre martiri: una di Ancira con Teodoto, una di Antiochia con Teoctisto e una di Amiso, martire con le sue sei compagne sotto Massimiano. (cfr. Biblioteca Sanctorum s.v., vol I, Roma 1961). Né è da escludere una mutazione volgare del toponimo in agionimo:. si tratterebbe di S. Caterina d’Alessandria, la martire del III secolo, il cui culto era molto diffuso in Sicilia in età bizantina e dopo e che è effigiata anche nella grotta dei Santi a Cava d’Ispica.
E’ poi fantasiosa inverosimile invenzione di qualche contadino della zona, a cui purtroppo è stato dato credito, che questo culto sarebbe stato introdotto nel Seicento dai Francescani di Ispica, pratici di scabbia, perché la santa veniva invocata per guarirla, come S. Rocco per la lebbra. I Frati Minori avrebbero addirittura qui soggiornato per curare la malattia, fino al 1940! A parte il fatto che nessuna Santa Alessandra è invocata contro la scabbia, questa notizia è inventata e non ha alcun fondamento. Non ne parla né il Minardo né il Moltisanti, non esiste alcuna testimonianza in proposito nell’archivio del Convento né tradizione locale e i Frati anziani (negli anni quaranta era Guardiano lo zio dello scrivente, P. Alberto Trigilia) rigettano questa fandonia frutto della superstiziosa credulità popolare!
Una grotta simile si trova nel villaggio rupestre di Timpa Ddieri al Mulinello nel lentinese (cfr. A. Messina, Le chiese rupestri del Siracusano, 1979). La camera rettangolare che si apre nella parte centrale del filare medio immette in un inghiottitoio carsico in cui si raccoglie, proprio come qui, l’acqua di stillicidio. Sulla parete di fronte c’è una nicchietta destinata a contenere un oggetto di culto. Non può essere un semplice sistema di raccolta dell’acqua; si tratta molto verosimilmente an-
che qui di un ambiente sacro di tipo battesimale: I disegni a carboncino di vani vicini, uno dei quali rappresenta una nave a vela, confermano, a nostro giudizio, il carattere cultuale. La nave infatti, secondo gli antichi Padri e scrittori ecclesiastici, è simbolo della Chiesa che conduce i fedeli al porto della salvezza.
In conclusione si tratta anche qui di una laura o convento di monaci di età bizantina e forse tardoromana - paleocristiana con annesso un antico Fonte battesimale. Anche l’archeologo G. Di Stefano (La Sicilia rupestre…,1986) era dell’opinione che si tratti di un “battistero rupestre”. Il Guzzardi propone la datazione al VI-VII sec. d.C., dopo l’occupazione bizantina e prima dell’invasione musulmana. Ma, secondo noi, non si può escludere e forse è più probabile una datazione più antica, la seconda metà del sec. IV, poco dopo la venuta di S. Ilarione e nello stesso periodo delle lapidi sepolcrali cristiane rinvenute a Cava d’Ispica.
Nei primi secoli dell’era cristiana invero il rito del battesimo era molto semplice e veniva somministrato sia per immersione che per infusione. In entrambi i casi c’era bisogno di una conca (pelvis) per tenere l’acqua o per raccogliere quella che cadeva sul capo del battezzato. In questa grotta c’è solo la conca, adatta per l’infusione e manca il “Battistero” (tabernaculum) per l’immersione. Nella Didachè (50-60 d.C.) è detto: “Devi battezzare.in acqua viva. Se non hai acqua viva battezza in un’altra acqua, fredda o calda. Altrimenti versa sul capo per tre volte l’acqua” (Cfr. E.I.T., Enc. Catt.).
Questo fonte perciò per la sua semplicità potrebbe anche risalire ad età paleocristiana. D’altra parte le prime comunità cristiane della zona dovevano pur avere fonti e battisteri dove si amministrava il primo e più importante dei sacramenti della fede.
Potremmo avanzare l’ipotesi che la predetta diceria della scabbia abbia questo fondamento: come l’acqua battesimale lava l’anima dai peccati così questa acqua poteva mondare il corpo dalla scabbia.
E’ poi verosimile che i cristiani abbiano sfruttato escavazioni più antiche dell’età del bronzo o posteriori, come in altri siti simili.
LA CAVA D’ISPICA
ARCHEOLOGIA STORIA E GUIDA
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