CIMITERI CRISTIANI

LA LARDERIA

LARDERIA CORRIDOIO DESTRO

CORRIDOIO CENTRALE

CORRIDOIO SINISTRO CON SEPOLCRO A BALDACCHINO

 

   Per l’etimologia, sconosciuta, di questo nome, proponiamo il verbo greco “laktizo” “scavo una fossa”, quale è appunto questa catacomba scavata dai fossori! Essa è sita all’ingresso della Cava nel lato sinistro, fa parte dell’abitato della testata nord della Cava che è localizzato fra il promontorio del Cozzo e il Poggio Salnitro, dove si riscontra la maggiore concentrazione di grotte. E’ una delle più grandi  catacombe della Sicilia Sud-Orientale, con quella di S. Marco di Ispica e la grotta delle Trabacche nel ragusano. Purtroppo è gravemente degradata, per le devastazioni vandaliche subite nei secoli e i continui riutilizzi del monumento, adibito fino a tempi vicini ai nostri ad abitazione e a stalla. Gli scavi del 1980 (Di Stefano) hanno ripulito tutte le fosse terragne e permesso una lettura più esatta del complesso. Sono state individuate molte lastre di sepoltura frammentarie e una integra e resti ossei sparsi. L’ingresso, chiamato “vestibolo”, che ha forma di rettangolo di m. 7,40 x 5,50, risulta danneggiato per crolli, l’esistenza di un antico tratturo e la costruzione di un ponte nel 1885. Nella sua parete nord-ovest ci sono 4 pile di loculi con 4 sepolture ciascuna e nel pavimento 26 fosse a tappeto. Esso dà accesso a tre corridoi. Il decumano centrale, orientato da est ad ovest, è lungo mt. 35,60, largo 3 all’inizio e 1,5 alla fine, e alto m. 2,50. Tutto il piano di calpestio è occupato da 55 fosse terragne disposte in 4 file parallele. E’ diviso in tre parti: la prima ha solo loculi a pila, in numero di nove e sette sui due lati; la parte mediana ha 4 arcosoli polisomi a destra e 3 a sinistra, con un minimo di 2 e un massimo di 7 fosse ciascuno, le ultime delle quali sono più alte. La parte finale comprende gli arcosoli più importanti, 7 a destra e 10 a sinistra; tre polisomi e gli altri, monumentali, con una sola fossa. Sono più alti e disposti perpendicolarmente al corridoio, con evidente funzione scenografica, come nella catacomba di S. Marco di Ispica e con le pareti laterali sfondate e comunicanti, eccetto il lato del baldacchino addossato alla parete. Il soffitto è pianeggiante e il raccordo nella fronte e nei lati è formato con archetti a tutto sesto.

   Nel lato sinistro al centro del decumano si apre il cd. “cubicolo del baldacchino”, con arcosoli polisomi  nelle pareti, il più monumentale dei quali ha 11 fosse. Nell’angolo N-E c’è un singolo sepolcro a tegurium o baldacchino e al centro uno bisomo con 4 pilastri angolari, tre dei quali ridotti a monconcini. Il corridoio meridionale è posteriore al decumano ha una lunghezza di 22 m e una larghezza che si restringe da 3m a 1,5 ca.; il pavimento è pieno di fosse in triplice fila. Nella parte anteriore ci sono loculi a pila multipli, mentre nella parete destra della parte finale ci sono due arcosoli polisomi con 5 e 9 sepolcri, uno dei quali è a baldacchino.

   Il terzo corridoio è il più corto (10 m.ca.) ma il più intensamente sfruttato. Vi si accede da un secondo vestibolo, che ha 5 pile di loculi multipli. La galleria è più larga delle altre due, ha 20 sepolcri nella zona nord e 12 in quella sud. In uno dei pilastrini del corridoio di destra è incisa, in modo non chiaro, una croce. Secondo Agnello (1959,99) si tratta di un monogramma costantiniano chi-rho. La Sammito ora (Archivium Historicum motycense 2001, p.57 e 124)  lo legge invece come croce montante su triangolo (simbolo della Trinità), con le due iniziali I. X (Gesù Cristo), monogramma che risale al III secolo. Le date 1657  e 1684 incise nella galleria centrale non depongono contro l’autenticità della croce perché opera  certamente da un visitatore del tempo del Carrafa. La datazione perciò della Larderia può essere anticipata al III sec. invece che al IV-V sec. , come finora si afferma sulla base delle epigrafi cristiane provenienti dalla Cava, alcune delle quali  proprio dalla Larderia, e anche da un frammento di lucerna in argilla rosso-corallino decorato con amorini vendemmianti fra tralci di vite, che si dipartono da un vaso, databile tra il IV e il V sec.d.C.(Di Stefano). Sono riconosciuti come simboli paleocristiani. I putti sarebbero le anime dei defunti che, dopo la morte godono del paradiso, dove raccolgono i frutti della fede (Sammito-Rizzone, 2001). Ma il paradiso è simboleggiato dal giardino non dalla vite e poi non si spiega perché i tralci promanino dal vaso (kantharos). Ci sembra più verosimile questa complessa simbologia. I primi cristiani adottarono l’immagine degli erotes  greci per rappresentare gli angeli, i

quali dopo la morte separeranno i buoni dai cattivi (la vendemmia). La vite, come simbolo di Cristo  e  della chiesa (cfr. Giov. 15,1-17) è stata usata come motivo decorativo negli antichi sarco- fagi cristiani, nelle pitture parietali delle catacombe e in seguito nei mosaici bizantini (J. Hall).

 

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Il Vaso sacro, da cui promanano i tralci di vite, cioè i cristiani (“Io sono la vite, voi i tralci”), è il mistico corpo di Cristo che contiene la sua divinità ed indica anche il calice eucaristico, che, rinnovando l’ultima cena, contiene il suo Preziosissimo Sangue. Da Cava d’Ispica proviene un’altra lucerna, con la raffigurazione di un leone (Sammito, 2001, p.121). Anche il leone rappresenta Gesù, “leone della tribù di Giuda” (Apoc. 5,5), mentre è da escludere il riferimento al Maligno, “leone ruggente” (1Pietr. 5,8), che i fedeli adoratori di Cristo e non di Satana, non potevano né volevano certo raffigurare simbolicamente! Le due monetine di bronzo ritrovate in due tombe e quasi illeggibili, sono da considerare l’obolo a Caronte, uno degli oggetti residui di sopravvivenza pagana rinvenuti nei cimiteri cristiani (v. Garana, p.316s.).  Ci sono poi alcune rozze sculturine: un “cigno che ghermiva un serpente” (Minardo), che è stato asportato e un quadrupede senza testa ancora esistente. Sono coeve alla costruzione del cimitero, perché fanno strutturalmente parte delle lunette e delle arcatelle. L’Orsi ci dice che un cavallo corrente era effigiato in una lucerna cristiana, ora perduta, rinvenuta nella contrada Cassaro a Nord di Modica (Sammito Rizzone, 2001). Anche questi sono simboli cristiani: il quadrupede se è un cavallo, come dice il Minardo, richiamerebbe il cristiano che, come dice S. Paolo, alla fine della sua corsa terrena, consegue la corona del vincitore (cfr. 2Tim. 4,7-8; Ebr. 12,1-2). Ci pare però questa un’accomodazione forzata dei due testi neotestamentari, che si riferiscono all’atleta che corre nel circo non al cavallo. D’altronde il cavallo è molto diffuso nella monetazione greca e romana e non abbiamo conferma di questa simbologia negli scrittori ecclesiastici. dei primi secoli. Più probabilmente, secondo noi, si tratta di un bue o di un ariete o agnello, simbolo di Cristo “Agnello di Dio”, che è invece molto frequente nell’arte paleocristiana. Un ariete simile al nostro quadrupede è inciso in due lucerne del museo di Siracusa e di Palermo (Garana, fig. 21 e 27). Così anche per il cd. “cigno”, che, a nostro giudizio, era verosimilmente un pellicano, simbolo anch’esso di Cristo secondo S. Agostino, il quale ghermisce (come fa in realtà l’uccello serpentario), togliendogli il potere sull’umanità peccatrice, l’antico serpente, Satana. Queste rozze figure di animali sono simili al leone e al bue rinvenuti nella chiesetta di S. Elena nell’antica Chiaramente Gulfi.  “Si tratta”, dice il Pace, (IV, 427), “di spontanea affermazione di modesti scalpellini di campagna, che vagamente sentono l’influsso del gusto predominante, ma agiscono al di fuori di ogni elementare educazione stilistica e tecnica.”. Ma, a nostro giudizio, più che di gusto artistico si tratta anche qui di simboli utili per catechizzare la gente semplice. Il bue infatti, che nell’Antico testamento era animale sacrificale, dall’antica patristica è indicato come simbolo del sacrificio di Cristo in alternativa all’agnello. D’altra parte queste simbologie devono essere confermate dalle sicure raffigurazioni dell’arte paleocristiana e dagli scrittori ecclesiastici, mentre i semplici riferimenti biblici possono essere solo accomodazioni arbitrarie degli studiosi.

 

 

 

 

 

 

 

LA CAVA D’ISPICA

ARCHEOLOGIA STORIA E GUIDA

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