Federico De Roberto(1861-1927), terzo membro della
<<triade verista>> siciliana, napoletano di nascita, ma catanese di
adozione ,grande amico di Verga, non ebbe successo neppure col suo romanzo più
significativo, I Viceré. Quasi certamente l’avere riscontrato nella sua
opera la mancanza di una prosa lirica, ha reso tardivo l’interesse critico per
De Roberto e mentre il recupero della narrativa verghiana avveniva negli anni
compresi tra le due guerre, quello dello scrittore si colloca solo sulla scia
del boom del Gattopardo. La raccolta di novelle “La sorte” (1887) segna l’esordio
del narratore, che per alcuni versi risente della lezione verghiana. Scrittore
antilirico, De Roberto resta però estraneo al mondo degli umili, incline alla
rappresentazione di ambienti cittadini e di ceti diversi più che a quella del
mondo rurale; uno stile tutto suo egli lo raggiunge quando, lontano da ogni
modello diretto, affronta il mondo nobiliare isolano e ne coglie la decadenza
in “Disdetta”. Le date confermano però che, la poetica che lo esprime sta per
iniziare la sua parabola discendente. Così De Roberto è attratto sempre più
dallo psicologismo di Bourget, che a Palermo aveva soggiornato nel 1887; anzi
alternerà Verismo e psicologismo, come avevano fatto del resto Verga e Capuana.
Ciò corrisponde in lui a consapevoli scelte culturali. De Roberto trovava già
in Verga il principio che ciascun soggetto porta con sé la sua forma;
all’artista sarà dunque concesso di servirsi dei vari metodi, secondo le
circostanze. Del resto il possibilismo derobertiano, che appare già nella
prefazione alle novelle di “Documenti umani(1888)”, trova conferma
nell’introduzione di Maupassant al “Pierre et Jean”(1888). Così lo scrittore
può volgersi ad una narrativa di tipo bourgetiano, che gli pare necessaria per
approfondire la conoscenza dell’animo umano, per acquisire un metodo
tecnico-stilistico strettamente complementare a quello obiettivo. Lo
psicologismo maturerà i migliori risultati sia nell’Illusione che
nei Viceré, dove avrà la funzione di mediare il trapasso
narrativo dall’esterno all’interno dei personaggi, fornendo all’opera la
ricchezza prospettica del grande romanzo. Il metodo psicologico prepara infatti
i mezzi espressivi atti a fare della “realtà elegante”,auspicando che l’analisi
condotta dai naturalisti tra i più bassi strati della società fosse applicata
al mondo aristocratico, con uno stile capace di coglierne tutte le sfumature:
cosa che il De Roberto, ben al corrente delle novità d’oltralpe, saprà fare
proprio nell’Illusione(1891), il romanzo che persegue la
distruzione della mitologia amorosa romantica e segna il primo approccio con
l’affresco del mondo degli Uzeda, qui appena accennato. Lo psicologismo denuncia
dunque l’ampliarsi degli interessi dello scrittore e il fatto che egli volesse
recuperarlo nell’ambito del Naturalismo conferma il carattere unitario della
sua ispirazione. Con I Viceré (1894)siamo nel cuore della
produzione derobertiana. Il romanzo rispecchia il malessere del periodo
postunitario: allo sguardo dei più sensibili la rivoluzione risorgimentale
sembra essere naufragata nel clima del più sfacciato trasformismo, mentre nel Mezzogiorno
fanno spicco la permanenza di vecchie strutture, la mancanza d’una nuova classe
politica, l’abile camaleontismo dei vecchi ceti dominanti. L’esplicito
inserimento del dato etico-politico è ciò che più distingue I Viceré
dai romanzi verghiani: ora De Roberto dà voce al suo sentimento di liberale del
sud deluso dalle speranze risorgimentali, la storia nazionale si intreccia alla
storia familiare, minuziosamente narrata, degli Uzeda. Questi antichi
discendenti dei vicerè spagnoli in Sicilia, riescono a mantenere intatto il
loro potere, passando senza scosse dal regno borbonico a quello sabaudo
attraverso una serie di trasformismi politici, grazie ai quali il duca d’Orange
s’insedia nel primo Parlamento di Torino ed il diabolico Consalvo viene eletto
deputato al Parlamento romano. Tutto ciò a spese dei borghesi e dei ceti
popolari, che, privi di coscienza politica, finiscono per affidarsi
candidamente alle mani degli antichi padroni. Il romanzo da un lato rappresenta
l’evoluzione del ciclo verghiano dei <<Vinti>>, poiché
s’addentra felicemente nel mondo aristocratico, dall’altro si pone a capo d’una
vena particolarmente feconda nella letteratura siciliana, che attinge alle
fonti della delusione risorgimentale: dai Vecchi e i giovani di
Pirandello al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, romanzi che, pur
con le ovvie differenze strutturali e di tonalità, risultano apparentati dalla
stessa linea tematica. Nell’implacabile scetticismo del
De Roberto è racchiusa, comunque, una lucida tensione morale. Presentando la
Sicilia nel suo fatale immobilismo, egli implicitamente accusava il
conservatorismo e la corruzione delle sue classi dirigenti; approdando ad una
concezione metastorica della sopraffazione, ne svelava le implicazioni
storiche. Con L’imperio (lasciato in stato di abbozzo e
pubblicato postumo nel ’29) De Roberto segue le vicende del neo- eletto
deputato Consalvo, spostando l’obiettivo della narrazione dalla provincia a
Roma, nel cuore del Paese, per sorprendere – nel suo diabolico personaggio e a
Montecitorio- le macchinazioni del trasformismo politico, di un costume
corrotto. Accanto a Consalvo Uzeda – pronto a tutto pur di
raggiungere il successo, ma già avviato verso la sconfitta-
lo scrittore pone Federico Ranaldi, attraverso il quale viene a estrema
maturazione la delusione postrisorgimentale e l’idea dell’illusorietà del
progresso. Il ritorno di Federico a Salerno segna la possibilità d’un recupero
di valori, degli affetti domestici semplici e sani dopo la delusione storica:
in realtà è la vita stessa ad essere negata come valore dalle riflessioni del
Ranaldi. Dal suo leopardiano pessimismo cosmico non si esce neppure attraverso
la progettazione di un nuovo patto tra gli uomini; nella tonalità apocalittica
delle ultime pagine si prospetta anzi l’autodistruzione della specie umana,
l’avvento dei <<geoclasti>> ,di coloro che faranno il mondo a
pezzi: conclusione degna dello sveviano Zeno Cosini. Le cause dell’abbandono
dell’Imperio sono molteplici: forse De Roberto non si sentì più
in grado di continuare la sua opera di demistificazione così crudelmente
condotta, fino al baratro del nulla; il romanzo, oltre tutto, sarebbe apparso
in età giolittiana e perciò avrebbe accusato un calo di mordente in un momento
politico che si proponeva di risolvere gli errori del trasformismo e del
crispismo su cui la narrazione era imperniata. Del resto, il Naturalismo e la
filosofia positivistica erano tramontati definitivamente sotto l’incalzare del
Decadentismo e dell’Idealismo, e con essi anche De Roberto entrava in crisi. Le
sue opere non avranno più la padronanza narrativa dei Viceré,
mentre sul piano storico egli aderirà ai miti del nazionalismo(ma la sua sarà
una posizione puramente difensiva,esteriore). Nonostante l’intervento
dell’autore, tra i racconti ispirati alla <<grande guerra>> ,
accanto a certuni puramente retorici, spicca infatti il grande risultato de La
paura, proprio quello lasciato inedito e pubblicato postumo nel ’27. De
Roberto vi narra la crudeltà del meccanismo bellico per cui alcuni soldati
vengono mandati sicuramente alla morte, in nome d’una patria in cui non si
riconoscono e di un anonimo dovere da compiere. Qui il documento naturalistico,
con la registrazione delle varie parlate regionali dei soldati, diventa alto
valore espressivo mentre la tecnica prelude alle tendenze più recenti di
oggettivismo linguistico.
Un ritratto e un busto in bronzo di Federico De Roberto.