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Leonardo Sciascia e la sua "sicilitudine" Di Tommaso Aiello |
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Dover parlare di una delle personalità letterarie più complesse della nostra Sicilia è abbastanza arduo sia per la vastità della sua opera,sia per la sua visione della vita. Noi ci soffermeremo a parlare di come nella sua opera saggistica si sviluppi il concetto di “sicilitudine”. La crisi del Neorealismo, la delusione per il mancato rinnovamento, non hanno fatto venir meno in lui l’impegno realistico. Diciamo subito che nel suo bagaglio culturale figurano oltre a Pirandello e Brancati, gli illuministi francesi, nonché il Manzoni del vero e della storia, specie quello della Colonna infame”. Il confronto col Gattopardo ha convalidato in Sciascia la volontà di denunciare le ragioni del fallimento della storia in Sicilia con appassionato fervore illuministico, rifiutando il lampedusiano abbandono al fluire fatalistico degli eventi e ad una visione elegiaca dell’esistenza. La biografia di Sciascia non offre molti dati: nato nel 1921 a Racalmuto, in una delle zone più povere dell’agrigentino, vi trascorse i primi anni, segnati dal tema insistente della zolfara e da libere letture domestiche, finchè si iscrisse all’Istituto Magistrale di Caltanissetta dove nel 1937 incontrò il prestigioso professore Giuseppe Granata (poi senatore comunista), collega a Caltanissetta di Vitaliano Brancati (Don Giovanni in Sicilia, Il bell’Antonio), già firma sicura dell’ ”Omnibus” (periodico anticonformista dello scrittore-editore Leo Longanesi). Dal 1941 Sciascia è fra quelli che gli eventi sistemano fuori dallo schema familiare e paesano: l’impiego all’ammasso del grano di Racalmuto è precario come il lavoro in zolfara, ma non pericoloso, salva il decoro del”diplomato” senza vietargli quotidiani contatti con gli umili, dannati alle saline e alla loro insicurezza. La condizione impiegatizia è centrale nel formarsi dello scrittore,unica alternativa locale all’inferno della miniera. L’autonomia regionale(1947)e la riforma agraria del’50,”catturata”da forze local-mafiose, non offrono nuovi sbocchi. Come <<statale>> vede snodarsi ore decisive, in Sicilia e a Roma, mentre scruta il segreto potere di chi usa la penna, sapendo la pena degli umili, le mosse scaltre dei borghesi, i labirinti e i miti dei <<ministeriali>>. L’intonaco formale della condizione impiegatizia non gli cela l’assurdo,tragico inganno del “saper leggere e scrivere”e l’unzione spagnolesco-curiale della burocrazia col suo “vertice di consacrazione nella firma”: <<sento-egli scrive-indicibile disagio e pena a stare….col mio decente vestito, la mia carta stampata, le mie armoniose giornate>>. Eletto consigliere comunale, spera di abituarsi, anche se ammetterà di trovarsi”un po’ spaesato”dopo i suoi libri più famosi, dopo essere divenuto un pensionato, residente in città e testimone dell’eterna commedia politica isolana, pensoso dei casi mafiosi e scettico sull’efficienza dei funzionari,sui risultati della Commissione antimafia. Coerente con la sua linea illuministico-indipendente, Sciascia ha scatenato e superato la dura polemica coi comunisti su “Il Contesto”; ha diviso con loro il seggio palermitano, ma da “intellettuale disorganico”, scettico sul successo della contestazione e della violenza, persuaso di grandi responsabilità della DC e della stessa sinistra italiana, la quale non ha tenuto conto dello <<stile del mestiere di sazietà>> democristiano. Nel 1977 si dimise da consigliere a Palermo, levando rumore nell’apparato comunista. Nei colloqui forse concitati a Racalmuto l’autore ha chiarito la sua impazienza nei confronti di un PCI troppo compromesso. Armato solo della penna, Sciascia non diserta la lotta contro l’impostura e lo sfruttamento: tentando un bilancio, si riporta all’oscuro senso di disagio d’un tempo. Vive il dopoguerra in ambito siciliano e ne assume i dati politici e socio-culturali, elementi spesso eccentrici e contraddittori rispetto alla realtà italiana. Il suo esordio letterario è maturato quindi attraverso un’insistita riflessione su cose, uomini, libri siciliani, ai margini della mossa temperie culturale italiana. Gli interessi di Sciascia andavano comunque oltre gli scrittori isolani: è certa l’attenzione a Savarese, ai rondisti,a Savinio, Simenon; tra le letture più care Gogol, Gobetti, Manzoni, Gramsci, Hemingway, Dostoewskij, Lorca, Unamuno, Ortega, Stendhal. Soprattutto sensibilizzano Sciascia a novità letterarie l’opera e il ricordo di Brancati. E’ facile ravvisare una presenza spagnola(del resto dichiarata più volte per Cervantes, Lorca, Unamuno, Castro) nello sforzo di Sciascia per riconoscere la sua identità attraverso la dolorosa diagnosi dei mali italiani visti nella sua isola. <<La Sicilia mi duole, Unamuno diceva: mi duole la Spagna, come dicesse di una parte del suo corpo. A me duole la Sicilia. E pure questo dolore, mentre cammino per le strade popolose e malsane, per i vicoli oscuri, ha una sua controparte di felicità. La pericolosa felicità del ”troppo umano”, che la Sicilia mi ha sempre dato”->> Il passo fotografa la nascita del libriccino in versi”La Sicilia”, il suo cuore(1952), ove un periodare grave, risente di Pavese lirico, e d’una vena intimistico-locale, come se l’orizzonte chiuso alle speranze e alla comunicazione vincolasse la tecnica all’essenzialità, affaticando il respiro con le immagini dure, rade, lente. Ritroveremo pena e autobiografia nella prosa “l’antimonio”,dei salinari sobriamente celebrati nelle”Parrocchie”, quasi per una vocazione antieroica, antiretorica. Quasimodo, cui Sciascia deve il senso della Sicilia <<come luogo di bellezza e verità>>, spicca, modello sicuro di questo passaggio difficile e già decisivo nel definire temi e colori, ricorrenti residui che si saldano alle favole dell’esordio e ai miti presto tramontati, per Sciascia, al confronto con la mestizia quotidiana, la Sicilia l’aiutava ad andare in fondo alla cultura della patria-isolana: <<la morte-così come i papaveri/accendono ora una fiorita di sangue/… questa valle/di zolfo e d’ulivi, /lungo i morti binari/ vicini ad acque gialle di fango/che i greci dissero d’oro.>> Questi versi, il bisogno stesso di volgersi alla poesia, denunciano un’ansia di soluzione alla pena, al sofferto dissidio in direzione di più distesa analisi e più ragionata espressione. Già vivono i temi futuri, la Sicilia centro dell’universo sciasciano. Dal 1953 affronta temi isolani in saggi che precedono e affiancano i suoi successi narrativi,debitori più che di spunti e di stile, d’una sempre consapevole sicilianità e dello sforzo per salire da essa a una visione universale. Un volume del ’53 studia “Pirandello e il pirandellismo” e riduce a quest’ultimo fenomeno la pseudofilosofia di un teatro ove un mondo di poesia viene”consunto e calcinato”. Egli esplora la critica postcrociana su Pirandello e ritiene che venga “inchiodato”in una formula troppo rigida che oppone vita e forma. Essa blocca il divenire vitale nella “maschera”dell’uomo, nuoce alla forza creativa del commediografo, costretto a vani tentativi di rompere-come artista-lo schema del suo critico. Il teatro pirandelliano, dovette attendere la crisi posbellica degli animi per essere inteso dal pubblico come <<il dramma dell’uomo occidentale>> che stenta a riconoscersi. Sciascia sviluppa invece la tesi di Gramsci, che vide i personaggi pirandelliani figli di <<una realtà storicamente viva, localizzata nel tempo e nello spazio…. Persone vive>>, non fantocci nati da sforzi intellettualistici. Sciascia riporta insomma il teatro di Pirandello a un’area dialettale dopo averlo sottratto a diverse interpretazioni di carattere libresco,ed esalta il candore e la vitalità di Pirandello, dinanzi alle falsificazioni, alle sofferenze e alla sua scoperta d’un mondo-teatro. Attorno ai motivi del primo saggio,quelli del libro”Pirandello e la Sicilia”(1961)maturano il concetto sciasciano di “sicilitudine”, secondo taluni temi e problemi letterari che la profonda realtà isolana germina. Con la resistenza al romanticismo l’autore spiega l’isolamento post-unitario della Sicilia; se Gentile ritiene la matrice verista responsabile d’aver precluso la Sicilia ai grandi temi europei Sciascia dissente, in nome d’una fedeltà alle sue profonde ragioni, agli<<strati infimi…forza e limite della narrativa siciliana… che cioè esprimono una visione del mondo, una cultura…nella misura in cui il verismo si fa realismo,lo studio rappresentazione, la poetica poesia>>, stante l’inclinazione degli autori isolani a rappresentare aspetti inesplorati, personaggi eccentrici della realtà regionale, cogliendoli in un passato non lontano e in un momento di trapasso. Prima di trovare un’interpretazione personale degli scrittori siciliani Sciascia si vale della roba,della donna,del gallismo, della tragica trasformazione di creature in personaggi; misura la distanza tra le classi sociali, tra verità e menzogne. Nel saggio del ’54 “Il catanese Domenico Tempio”, il nostro autore stringe il tema erotico all’amara commedia di costume brancatiana e alla sua valenza nell’eterna anima siciliana. In essa il discorrere sulla donna realizza un prodigio che poggia però sul” piacere…. quasi sempre passato o futuro e non mai presente, nel modo stesso che la felicità è sempre altrui e non mai di nessuno, e sempre condizionata e non mai assoluta”. Spicca l’insicurezza apprensiva degli affetti,spina psicologica cui risale l’isolamento del siciliano, che esaspera il suo individualismo sui due versanti dell’esaltazione e della sofistica disgregazione. Tale insicurezza produce il fallimento storico, col fatale esporsi alla mistificazione. L’insicurezza circa gli affetti, l’etica e il comportamento erotico tutto riducono a oggetto di dominio o di piacere,al dramma della solitudine che esige il possesso esclusivo e si nutre d’invidia. Così il siciliano <<riconoscendo nella donna una vita soltanto istintiva,tende a soddisfarne i sensi per ridurre il margine d’apprensione,di insicurezza, relativamente alle sue azioni.>> Non ne nasce, però,come si potrebbe pensare,una spinta realistica; in tal modo di vivere siciliano Sciascia scorge piuttosto una sorta di adolescenziale inettitudine che si fa contemplazione solitaria e ossessiva difesa. Stato o mafia, clientelismo e miseria,servilismo, esasperazione dialettico-giuridica, fino all’uso sofistico del concetto di giustizia, si prestano a leggere i vari fenomeni. Ad ogni nuovo nodo problematico l’autore cresce e meglio riconosce nel”caso”siciliano un’umanità che ne supera l’ambito. Per Sciascia in Sicilia il concetto di privilegio ha assunto ormai valore molteplice, se deriva da concessioni sovrane assai antiche. Da tempo quei privilegi si sono cristallizzati in una coscienza giuridica sensibile e permalosa,”astratta,involuta,cavillosa,sofistica”. Tale vuoto esercizio giuridico non ha scalfito la forza d’una feudalità latifondistica che ancora oggi fa il bello e il cattivo tempo in Sicilia; ne è però scaturito un duplice atteggiarsi dello spirito dell’isolano, che ora si adegua servile agli odiati e bestemmiati potenti, ora esalta la propria scaltrezza nel muoversi tra le pieghe d’un diritto annoso e aggrovigliato. Fino a illudersi di poter sempre raggirare i dominatori. Ci s’imbatte così nell’illusione d’indipendenza, lusingata da separatismo e da autonomie regionali, dalla presenza di siciliani ai vertici della vita nazionale: ma non vi corrisponde un reale progresso nell’isola, che “ha problemi da terzo-mondo e si trova a convivere col primo”. Questa follia d’indipendenza, di credere che la Sicilia <<perfetta e se stessi portatori d’un modo di vita impareggiabile>>, tira in causa il fenomeno della mafia, ma non basta a spiegarlo; nell’incapacità e nel rifiuto a strutturare una vita associata che si dia leggi e vi ottemperi,nella pazza certezza d’affrancarsi con doti native da un potere statale sentito come estraneo, tutte le forme isolane o in occasionale contrasto col potere costituito trovano incoscia disponibilità nel siciliano; per la sua insicurezza e inquietitudine di fondo, che promuove o giustifica la violenza, anche nelle forme dell’inganno, dell’impostura. L’idea della consanguineità, d’una cerchia familiare e ridotta che ogni siciliano crede più agevole controllare, lo trae a quella rete di favori,opportunismi, pseudoprotezioni che spesso sono supporto “mafioso” e mistificano le leggi della vita associata. E non è da credere che tale mentalità sia finita, perché ancora oggi nei piccoli e medi centri ci sono dei clan che si “sistemano”al “municipio”, alle poste e dove è possibile trovare ampi spazi per inserirsi (vedi aziende parastatali o private: asili nido, centri di formazione, assistenza agli anziani, centri di accoglienza”casa-famiglia”). Il siciliano risulta vivere in una condizione alienata, che l’imprigiona entro forme ormai senza significato(imposture), ma tali da vanificare e comprimere quanto della vita popolare, della sua pena e passione chiederebbe di venire alla luce. La paradossale condizione del siciliano si separa dunque dalla possibilità di vivere il suo tempo, il disvivere siculo-ispanico, scrive Sciascia, riappare nei temi del Gattopardo: il sonno, la morte, l’autoconvinzione di essere dei, l’impossibilità di una vita associata. Del resto non s’intende Sciascia senza le sue chiose saggistiche a Pirandello (vedi Pirandello e la Sicilia,1961), che scopre in ogni cervello siciliano <<tre corde d’orologio… la seria, la civile e la pazza…. Bloccata da secoli quella civile, la corda seria vibra solo in sincronia con lo scatenarsi della corda pazza>>. Occorre il distacco per isolare nella quotidianità del mondo siciliano le risonanze delle corde vibranti. Per tali ragioni la narrativa di Sciascia procede senza dar troppo peso alla nobiltà del genere letterario:egli è pago della provocazione che può venire dal giallo,aperto alla formula teatrale se la vibrazione etica(la corda seria!)si separa da interferenze o da possibilità di letture equivoche. I sali coloristici, erotici, folkloristici, lo distinguono da ogni altro autore del suo tempo. Quando scrive che <<Vittorini,Brancati e Quasimodo offrirono più o meno direttamente i tre temi siciliani… la Sicilia come mondo offeso…. come teatro della commedia erotica…. come luogo di bellezza e verità>> è agevole rendersi conto della sapiente mescolanza di motivi e d’ingredienti ottenuta col preciso intento di non tradire l’isola, d’offrirne una immagine veritiera e una spiegazione animata ma”universale”; d’interpretare davvero in ogni forma, a ogni riga la Sicilia, il suo cuore. Nell’opera narrativa che va da “Le parrocchie di Regalpietra (1956), passando per “Il giorno della civetta(1961), a “Todo modo”(1974), a “Nero su nero”(1979), per finire con “Kermesse”(1982) e “Occhio di capra”(1984), Sciascia si qualifica come uno dei pochi scrittori del secolo scorso (morì a Palermo nel 1989) il cui impegno intellettuale non ha subito mai soste;ed è per questo che appare il più rappresentativo degli scrittori siciliani della seconda metà del Novecento,nonostante la diffidenza durata per lungo tempo da parte della critica ufficiale sia di destra che di sinistra.
Centro Studi Sciasciano a Racalmuto.
Tommaso Aiello(L.C.Partinico)
Consulente del Distretto Lions 108yb
Per l’Area Cultura e Comunicazione
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