Heritage Sicilia

Terra di Pane  e di Vino

Di Tommaso Aiello

Sicilia: Centro Studi Helios

Affrontando il tema “Sicilia-Terra di cultura”abbiamo trattato delle eccellenze nel campo delle arti figurative, della musica e della letteratura nei vari  secoli .   Questa volta invece ci soffermeremo su un altro aspetto, quello della eccellenza dei prodotti della nostra terra . Non per niente l’alimentazione mediterranea è ritenuta in tutto il mondo come la migliore perché più confacente alla vita dell’uomo. Per cui il tema che tratteremo porta il titolo di:Sicilia-Terra di Pane e di Vino .     

Ci fermeremo, per necessità di brevità, al Golfo di Castellammare con i suoi paesi dell’entroterra . Partiamo dall’antica borgata di Valguarnera-Ragali(a pochi chilometri da Partinico, in provincia di Palermo)dove ci si arriva attraverso la vecchia sede stradale della 113 che porta ad Alcamo .   Già lungo il percorso assistiamo a un paesaggio agricolo primitivo, un mondo che va sparendo ma che riconosce ancora la vecchia sovranità delle stagioni, del tempo e della Provvidenza .

 

                                                                     

                                                        Planimetria dell’antico borgo di Valguarnera-Ragali(Archivio Aiello)

La Valguarnera dei pochi ruderi che sopravvivono fu fondata alla fine del 1500, secolo in cui l’agricoltura siciliana si espandeva rapidamente e i baroni allargarono la loro sfera d’influenza verso la provincia .  La planimetria del borgo, secondo lo schema tipico degli insediamenti dei secoli XVI e XVII era caratterizzata da un tessuto viario a rete che formava isolati rettangolari . La studiosa Maria Giuffè attribuisce il piano urbanistico all’architetto regio Mariano Smiriglio, al quale viene pure attribuito il progetto della fontana-abbeveratoio .                  Rocco Pirro nel suo”Sicilia Sacra”(ed.1638) ci dice che Valguarnera “è una piccola città di recente fondazione e conta 81 case e 309 abitanti”. Il fatto più interessante è che abbiamo ancora integra, anche se necessita urgentemente di qualche intervento conservativo, la fontana-abbeveratoio dotata di 14 cannelle con a centro una lapide in tufo che ci testimonia che fu costruita nel 1609 .

                                                                                                                                              

                                                                             

La fontana-abbeveratoio( con 14 cannelle)del 1609.(Foto Aiello)

Malgrado le proporzioni leggermente goffe ed instabili,  la fontana possiede un’eleganza rupestre e grande suggestività data dall’intervento aristocratico dello stemma, dalla prodigalità di cannelle, dall’accorrere di uomini e di bestie(ancora fino agli anni’50) attorno un abbeveratoio così generoso  dalla sacralità dell’acqua in un paesaggio arido, dai sogghinghi delle maschere che richiamano arcaiche forze agresti, sempre pronte a beffarsi delle fatiche mortali . Lasciata alle spalle Valguarnera e la sua fontana, si procede diritto lungo la strada che ancora trent’anni fa era il collegamento principale fra Palermo e la Provincia di Trapani .

                

Paesaggio  del fondo valle dello Jato

Passando il fondovalle dello Jato che alimenta il lago Poma e risalendo l’altra sponda, si va incontro al bivio Sant’Anna . Una strada ancora più stretta attraversa una valle dolce e serpeggiante, attorniata da basse colline che racchiudono un microcosmo di agricoltura siciliana arcaica . Un regime fondiario tradizionalmente molto frazionato in piccole proprietà rende variegato il paesaggio, con campi piccoli segnati da siepi e da macchie di pioppo e di mandorlo .   Le canne che crescono lungo la strada testimoniano la presenza di acqua, e la vallata è ricca di frutta: oliveti e pescheti si alternano ai vigneti che qui sono ancora a misura di “zappa e di mulo”, suddivisi in piccoli appezzamenti piantati a filari troppo stretti per far passare  le moderne macchine agricole .

                                                                            

                                                                                        Filari di vigne coltivate all’antica.(Foto Aiello)

 

Vigne così, ancora potate secondo gli schemi tradizionali, basse e ristrette ad “alberello” oppure leggermente più alte e legate “all’alcamese” ad un fascio di canne, producono pochi grappoli di uva dolcissima, quella che darà il vino siciliano di una volta, forte ed ambrato, che sa subito di invecchiato .   Salendo le colline in cima alla valle i vigneti si alternano con piccoli campi di grano, addirittura ricavati dai pendii più ripidi con un faticoso lavoro di terrazzamento .  Superate queste colline il paesaggio muta improvvisamente . I primi scorci della Valle del Belice si aprono su vaste distese ondulate, tagliate su ampia scala con l’irregolare geometria delle vaste proprietà feudali . In primavera i grandi campi di grano cambiano colore secondo la data e la direzione della semina: cambiamenti di gradazione e tinta che resistono man mano che le messi maturano e s’ingialliscono . Superato il paesino di Grisì segue un’ampia vallata, con campi vasti che solo le macchine possono arare. Siamo nella terra d’espansione della cultura viticola .  La nuova domanda per un vino da tavola più leggero e le nuove tecniche di coltura hanno permesso agli agricoltori di impiantare vigneti da secoli destinati solo al grano e al pascolo .  Ed infatti la terra del grano è contesa da migliaia di vigne alte, sorrette da sottili fili di ferro dei tendoni, che salgono e scendono per i terreni ondulati .

         Vigneto a tendone(Foto Aiello)                 Il vigneto si espande(Foto Aiello)

 Qua e là rettangoli d’acqua risplendono al sole, laghetti artificiali che raccolgono le piogge per le irrigazioni estive(dove non arriva l’impianto di irrigazione del lago  Poma) .  Con le prime piogge autunnali tutto si ricopre di verde, i germogli di grano, le erbacce nel vigneto che poi fiorisce di bianco e giallo . Le arature primaverili restituiscono il contrasto smorzato subito dopo quando le vigne stesse cominciano a mettere foglie, ed allungano rigogliosi tralci ad assorbire quel colore che il grano maturandosi al sole, cede . D’estate, nella scia delle gigantesche mieti-trebbiatrici, la stoppia sbiadisce, mentre il vigneto resta verde, si carica d’uva .   Con l’autunno le foglie ingiallite della vigna cadono e si disperdono tra i germogli d’erba che ancora una volta stanno nascendo . Il ciclo si compie,con l’aiuto del sole e della Provvidenza  le botti e i granai si sono riempiti . Proseguiamo il nostro itinerario verso Salemi, l’antica Alicia fondata dagli Elimi, e poi ribattezzata dagli Arabi”Salem”o”luogo delle delizie”.  Malgrado le distruzioni causate dal terremoto del 1968, Salemi possiede tuttora vari monumenti che meritano una visita.  Ma la superstite più rara ed affascinante è una tradizione, un’arte: quella dell’ex-voto modellato in pane .“Uomini che mangiano pane” era l’espressione con cui Omero distingueva i Greci e gli altri popoli civili del mondo antico da quelli barbari che ignoravano l’arte dell’agricoltura .   Per millenni in tutto il bacino mediterraneo il pane è stato un elemento di profonda sacralità, ma  in Sicilia questo fenomeno acquista dimensioni straordinarie . Frutto di un lungo e faticoso consociarsi di uomo e natura, segno tangibile della generosità divina. Per i siciliani il pane è stato sempre il sostegno della vita, e come tale va rispettato, consumato con cura, mai sprecato. Molto spettacolari sono i pani esposti sugli altari di San Giuseppe il 19 marzo . Questa festa apre il ciclo delle feste patronali che si prolungano in moltissimi comuni della Sicilia fino alla tarda estate .


La panificazione nell’antichità(Archivio Aiello)


L’addobbo del pergolato(foto Aiello)


L’addobbo del pergolato(foto Aiello)

Essendo San Giuseppe il santo protettore dei poveri, degli orfani e di chi si trova in grandi ristrettezze di vita, la festa di questo santo rappresenta il trionfo della carità, lo spirito della beneficenza, non disgiunto forse da una certa vanità da parte di chi per voto prepara la mensa per i poverelli .Ogni anno per devozione al Santo alcune famiglie preparano le”cene”, costruendo in casa un pergolato ricoperto di verde e decorato con arance, limoni e centinaia di piccole e preziose sculture in  pane .   Dentro questa costruzione viene eretto un altarino a più ripiani dove vengono collocati, secondo un criterio consacrato dalla tradizione e che dovrebbe corrispondere a una gerarchia di valori, i pani scolpiti dalle abili mani delle donne e che rappresentano”Il Sacramento, Il nome di Maria, La discesa degli angeli, La mano di S.Francesco e Santa Chiara,S.Giuseppe e il Bambino Gesù, Il Santo Padre” contornati da una serie di altri pani più piccoli come angeli con candeliere ,angeli con incensiere, panieri con fiori,panieri con frutta e poi ancora la vigna con canne e uva, la serpe e la lumaca(come nella realtà), la palma e per finire i pani a forma di “buccellato”.  Ai due lati della stanza sono poi esposte le pietanze che sono tantissime ”tutti li pitanzi di lu  munnu” .

                                                                                          Il  Sacramento(foto Aiello)                                                                                                               

In tempi passati le famiglie che preparavano le cene, avendo tutte un parente che lavorava all’estero, si facevano mandare alcuni cibi particolari che mancavano nelle nostre zone . La “cena” di S.Giuseppe ripropone  ancora alcuni temi essenziali in stretta analogia con quelli relativi ai riti solstiziali: l’offerta delle primizie , l’ostentazione dei prodotti, l’orgia alimentare .

  Come in altri riti, come quello del Capodanno, anche qui il gruppo sociale avverte i rischi connessi con la vita dell’anno agricolo, in un particolare momento di paura e di crisi, quando una gelata potrebbe compromettere il paziente lavoro dell’annata .

In queste feste che provengono in origine da quelle agricole della fertilità, il banchetto collettivo rappresenta ancora una concentrazione di energia vitale con tutti gli eccessi che comporta e convoglia apprensioni e speranze sul destino del raccolto e sulla usufruibilità dei prodotti . Proseguendo il nostro itinerario per la strada 188a si passa accanto i paesi di Vita e di Calatafimi . Anche qui i vigneti e gli oliveti più ricchi di questi comuni sono fuori della portata dell’occhio, ma i loro frutti arrivano nella vallata per la trasformazione .   Anche qui il pane è protagonista, nella tradizionale forma a ciambella frastagliata che si chiama “cucciddatu”, quando è la celebrazione della festa della Madonna di Tagliavia .

I “cucciddati” sono il principale elemento decorativo delle offerte  dei “Ceti” che sfilano in cavalcata su muli bardati a festa e della “Carrozza del pane”, un grande carro ricoperto di pani e fiori .  E non è raro vedere anche un carro del vino e delle olive ,composto dai semitorchi in cui una volta si pigiavano l’uva e le olive .   Dopo tanti chilometri di paesaggio agricolo, domato e trasformato attraverso i secoli di zappa e vomere, qui le grandi masse di pietra nuda, le macchie scure dei pineti, i tagli che il fiume ha scavato a picco in colline finora dolci, danno il senso di un mondo vergine e primordiale, tanto che viene del tutto naturale scorgere dall’altro lato della vallata, seminascosto fra grosse rocce e dirupi imbruniti dal rimboschimento, il tempio di Segesta, testimonianza  splendida e suggestiva di una civiltà e di una cultura passata .  Un territorio, quello che abbiamo visitato, che ha tante facce e tanti aspetti: da quello primitivo e selvaggio, quasi del tutto incolto, a grandi estensioni di terra dove la fanno da padrone il grano, il vigneto e l’uliveto, i cui frutti sono la base, come dicevamo all’inizio, della “Dieta Mediterranea” che oggi tutto il mondo rivaluta.

                                                                                                                                         Il tempio di Segesta

 

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