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Il problema della conservazione e del restauro Di Ignazio Caloggero
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Da un articolo di Ignazio Caloggero pubblicato sulla rivista "PAGINE DAL SUD" nel 1997
NOTE: Al fine di tenere conto dell'evoluzione normativa avvenuta dopo la pubblicazione dell'articolo, ricordiamo che L'art. 3 della legge 1062/71 è sostituito dall'art. 178 "Contraffazione di opere d'arte" del Codice dei beni culurali del 2004 e che L'art. 8 comma 1della legge 1062/71 è sostituito dall'art. 179 "Casi di non punibilità" del Codice Unico attualmente in vigore
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Se
si vuole affrontare il problema della tutela dei beni culturali, non
si può prima non affrontare la problematica relativa alla
conservazione e restauro dei monumenti.
Un monumento visto come
bene culturale costituisce una testimonianza (storicamente
significativa) del divenire umano, affinché possa continuare ad
essere anche <monumento> (da monere = ricordare) è necessario
conservarlo e, se il caso, restaurarlo, affinché, prolungandone la
vita, possa trasmettere ai posteri tale testimonianza.
Ma se l’esigenza di
garantire la conservazione dei monumenti è antichissima, è può
essere fatta risalire all’epoca romana, la teoria del restauro
nascerà solo verso l’ottocento. Fino ad allora il risultato del
restauro era la diretta conseguenza della fantasia e dell’estro
personale del restauratore, che non esitava, il più delle volte, ad
integrare in modo più o meno arbitrario i monumenti da restaurare.
Quando si inizia a parlare di teoria del
restauro, verso la metà dell’Ottocento, due scuole di pensiero,
opposte tra di loro si fronteggiano: quella francese sostenuta
dall’architetto Viollet-Le-Duc[1],
e quella inglese sostenuta dal letterato e critico John Ruskin[2].
L’architetto e storico
dell’arte francese Viollet-Le-Duc dopo un periodo di studio
dell’arte greca e romana in Sicilia e a Roma, inizia verso il 1838 a
interessarsi del gotico francese, è il restauratore di alcune delle
più importanti chiese gotiche (Notre-Dame, l’abazia di Vezelay,
Saint-Denis, Chartres) e di alcuni castelli (Pierrefonds,
Carcassonne). Secondo Viollet-Le-Duc è possibile restaurare un
monumento integrando le parti mancanti in modo che il risultato
finale potrebbe non essere mai esistito realmente se non
nell’immaginazione dell’autore originario.
Questo tipo di restauro
viene chiamato restauro “integrativo” e anche “stilistico”
in quanto il restauratore non si limita alla manutenzione o al
consolidamento dell’esistente, ma reintegra le parti mancanti
secondo come erano (o avrebbero potuto essere) al tempo in cui il
monumento era stato costruito. Inoltre tutte le aggiunte fatte
successivamente debbono essere distrutte, anche se queste sono ormai
“storicizzate” e di valore artistico superiore. Le indicazioni di
Viollet-Le-Duc sono quelle che, prima di iniziare il restauro, di
studiare il monumento, eventualmente facendo riferimento alle forme
degli edifici coevi.
La facciata occidentale di Notre-Dame |
Facciata della basilica di Vézelay |
Castello di Carcassonne |
Nel restauro
“stilistico” non viene eliminato il rischio che la fantasia del
restauratore prenda il sopravvento sugli studi, facendo sì che il
risultato finale diventi un falso storico ed estetico e perpetrando,
come dice Cesare Brandi, la più grave eresia del restauro: il
restauro di fantasia.
Il restauro
“integrativo” quando comprende l’eliminazione delle aggiunte fatte
successivamente viene anche chiamato “restitutivo”; questa
forma di restauro a volte può essere caratterizzata dal fatto che,
per restituire parti originarie di poco valore artistico, si può
rischiare di perdere le aggiunte ormai “storicizzate” e magari di
maggior spessore artistico, delle parti più antiche.
Il restauro “integrativo” nelle sue forme più
estreme di reintegrazione totale, rischia di costituire una
vera e propria alterazione dell’opera d’arte o del
monumento restaurato, dove con questo termine si vuole indicare la
modifica arbitraria del prodotto artistico, incidendo
sostanzialmente sul suo significato espressivo. In alcuni casi
questa alterazione può addirittura essere punita penalmente, infatti
l’articolo 3 della legge 1062/1971 “Legge Pieraccini” punisce
con la reclusione da tre mesi fino a quattro anni e con la multa da
lire 200.000 fino a lire 6.000.000[3]
chi, al fine di trarne illecito profitto, altera, o pone in
commercio o semplicemente introduce nel territorio italiano, un
opera d’arte o un oggetto di antichità o di interesse storico od
archeologico. (L'articolo
in questione è costituito adesso dall'art. 178 del Codice dei beni
culurali del 2004 e la multa è stabilita da euro 103 fino a 3.099)
Resta da risolvere il problema di capire
quando l’eccesso di restauro diventa alterazione, l’ultimo
comma dell’articolo 8 della legge suddetta specifica che le
disposizioni penali non si applicano ai restauri artistici che non
abbiano ricostruito in modo determinante l’opera originale. E’
possibile affermare che il restauro diventa alterazione quando non
permette più, in un opera, di riconoscere la sua identità.
(L'articolo
in questione è costituito adesso dall'art. 179 del Codice dei beni
culurali del 2004) Nel caso
in cui un perito venga chiamato a stabilire se è avvenuta
alterazione, questi non dispone di criteri precisi per riconoscere
l’identità dell’opera; la sua valutazione sarà necessariamente
caratterizzata da una certa discrezionalità tecnica e dipenderà
probabilmente dal tipo di corrente a lui congeniale (restauro
integrativo o restauro conservativo); egli dovrà studiare la
trama poetica, ossia “il tessuto nel quale il concetto si
esprime in una forma” e solo quando il restauro incide su tale trama
poetica, sarà possibile configurare il reato di alterazione[4].
Esempi di restauro
“integrativo” sono:
·
la ricostruzione della facciata veneto-bizantina del XII-XII
sec. Del Fondaco dei Turchi a Venezia, avvenuta nel 1857 ad opera di
Federico Berchet;
·
l’asportazione di alcuni affreschi e sculture dal Duomo di
Orvieto, ora conservati al Museo dell’opera del Duomo, solo perché
aggiunti in epoche successive (il Duomo fu iniziato nel 1290), al
fine di ritrovare alcuni affreschi trecenteschi di artisti
sconosciuti e di dubbio valore artistico;
·
l’eliminazione della facciata settecentesca dalla chiesa
medioevale di S. Maria in Cosmedin, avvenuta alla fine
dell’ottocento ad opera di Giovan Battista Giovenale. La chiesetta è
nota perché sede della famosa “bocca della verità”[5]
Facciata sul Canal Grande del Fondaco dei Turchi |
S. Maria in Cosmedin |
Scuola antitetica a quella francese è invece
quella inglese capeggiata dal critico d’arte inglese John Ruskin,
docente all’università di Oxford, partecipò al movimento “luddiststa[6]”
nato come forma di protesta nei confronti della società industriale.
Ruskin condanna qualsiasi forma di restauro, anche quello
conservativo o di manutenzione, la sua posizione estremistica lo
porta ad asserire che i monumenti debbono cadere in rovina fino a
scomparire perché qualsiasi forma di restauro porta ad utilizzare
parti nuove al posto delle parti rovinate facendo sì che l’edificio
diventi nel tempo solo un modello dell’edificio originario.
Un famoso esempio di
restauro “conservativo” secondo la scuola di Ruskin è invece il
restauro dell’Abbazia di S. Galgano (Siena). La chiesa abbaziale fu
iniziata nel 1224, semidistrutta nel XIV, nel XVI era già in rovina.
Nel XIX secolo fu restaurata, limitandosi al consolidamento
dell’esistente, per cui adesso si possono visitare i grandiosi
ruderi che lasciano comunque intuire l’antica bellezza, anche se la
costruzione (su tre navate, con arcate a sesto acuto) è senza tetto
e il prato invade la zona pavimentale.
Abbazia di S. Galgano: vista esterna |
Abbazia di S. Galgano: vista dall'interno |
Dalle posizioni estreme
di Ruskin nasce la corrente moderata, che accetta il restauro
conservativo come unico strumento per salvare il monumento e
trasmetterlo quindi ai posteri. Alla corrente che preferisce
l’azione del consolidamento al restauro appartiene l’architetto
Camillo Boito (1836-1914). Boito accusa i restauratori “stilistici”
di falsificare i monumenti in quanto ingannano i contemporanei e,
ancora peggio, i posteri, egli arrivò ad affermare: “I
restauratori sono gente da mettere in berlina o da mandare
addirittura al patibolo”
Nel caso in cui il
restauro si renda necessario, Boito considera importante che le
“aggiunte” siano riconoscibili, utilizzando eventualmente materiale
diverso dall’originale in modo da non trarre in inganno
l’osservatore facendogli credere antico le parti aggiunte dal
restauro. Altra indicazione di Boito e quella di fotografare tutte
le fasi del restauro. Le teorie di Camillo Boito sono accolte dal
“Congresso degli Ingengeri e Architetti Italiani” tenutosi a Roma
nel 1883 il cui documento finale è considerato la prima Carta del
Restauro italiana.
Con Cesare Brandi
(1906-1988) prendono forma le moderne tesi sul restauro. Fondatore e
direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, Brandi riprenderà e
approfondirà le teorie di Camillo Boito, affermando che il restauro
di un’opera d’arte o di un monumento, non è semplicemente
l’intervento volto a rimettere in efficienza un prodotto
dell’attività umana, ma qualcosa di molto più profondo; egli enuncia
a tal proposito i seguenti due principi:
“il restauro
costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera
d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità
estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro”
“il restauro deve mirare al
ristabilimento delle unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò
sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso
storico, senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera
d’arte nel tempo”
[7]
Per quanto riguarda i
monumenti, Brandi aggiunge la necessità di salvaguardare anche lo
spazio ambiente in cui il monumento venne costruito.
La circolare 6 aprile
1972, n° 117 emanata dal Ministero della Pubblica Istruzione, nota
come “Carta del Restauro 1972” , diretta a tutti i Soprintendenti e
Capi di Istituti autonomi, con la disposizione di attenersi
scrupolosamente ed obbligatoriamente, per ogni intervento di
restauro su qualsiasi opera d’arte alle norme contenute nella Carta
e nelle allegate istruzioni, tiene conto in modo significativo,
delle teorie sul restauro del Brandi.
La “Carta del Restauro 1972” ribadisce l’opportunità di effettuare il restauro conservativo, non ha mai avuto purtroppo forza di legge, è stata quindi fin troppo disattesa, la conseguenza della non applicazione delle indicazioni di Grandi nei progetti di restauro dei nostri beni culturali, è la creazione di falsi storici.
Purtroppo, a volte,
viene spacciato per restauro conservativo un tipo di restauro che
neanche l’architetto francese Viollet Le Duc, padre del restauro
“stilistico”, considerato antitetico al restauro conservativo,
avrebbe avuto il coraggio di effettuare. Ci auguriamo che fino a
quanto le indicazioni fornite dalla Carta del restauro 1972 non
assumono una valenza legislativa, i nostri amministratori appoggino
unicamente quei progetti di restauro che si basano sui principi del
restauro conservativo, perché se non si vogliono ingannare i
fruitori presenti e futuri di un monumento è bene rispettare la
massima di Camillo Boito: “piuttosto consolidare che riparare,
piuttosto riparare che restaurare” a cui mi permetto di
aggiungere: “piuttosto restaurare conservando che integrando”.
[1] Eugène Emmanuel Viollet-Le Duc nasce a Parigi nel 1814 e muore a Losanna nel 1879.
[2] Letterato e critico d’arte, John Ruskin nasce a Londra nel 1819 e muore a Brantwood nel 1900.
[3] Il valore della multa è stato elevato a seguito dell’art. 11 della legge 689/1981.
[4] Fabrizio Lemme: La contraffazione e alterazione d’opere d’arte nel diritto penale. P.30.
[5] Nel portico della chiesetta si trova un chiusino a forma di maschera umana chiamato “bocca della verità” perché secondo la credenza popolare si riteneva che mordesse la mano a chi, infilando la mano dentro la bocca, mentiva.
[6] Il movimento trae il suo nome da Ned Ludd capo del movimento operaio inglese caratterizzato dalla avversione nei confronti delle macchine industriali causa di disoccupazione. Il movimento ebbe inizio nel 1811 a Nottingham e si estese a vari distretti industriali, causando la distruzione di molti macchinari.
[7] Cesare Brandi: Teoria del restauro p.6 e p.8.