SEC. XX (parte 3)
1993
IL QUADRO DELLA MADONNA DEL ROSARIO
Per interessamento del Prof. Trigilia che l'ha riscoperto e studiato e del Parroco Paolo Mansueto, la grande pala d'altare proveniente dall'ex Chiesa di S. Anna è stata trasferita nella Basilica e collocata nella parete destra dell'altare maggiore. Data l'importanza del dipinto che ora fa parte dei tesori d'arte della Basilica, riporto, in edizione integrale, il mio studio storico-artistico1.
La provenienza ed il ritrovamento. Questa grande pala d'altare (olio su tela di m. 4,40 x 2,80) rappresenta la Madonna del Rosario e Santi, il Papa Pio V, Filippo II di Spagna e altri illustri personaggi; è di autore ignoto ed è databile al 1567.
Il quadro, proviene dall'ex Chiesa di S.Anna, che risale alla seconda metà del Cinquecento; allo stato attuale delle nostre conoscenze, ne ignoriamo l'anno di erezione2. Nelle visite del Vescovo Giovanni Antonio Capobianco del 10 maggio 1661 e del 20-Giugno 1669 è detto: “Poiché in questa chiesa vi è una grandissima devozione per Nostra Madre sotto il titolo del SS.mo Rosario, che in essa in suo onore ogni giorno viene recitato, vi si permette il confessionale per le donne … in tutte le domeniche e feste di precetto”3. In quella del vescovo Francesco Fortezza del 29 aprile 1683, sono indicati gli altari: “Visitò…l'altare maggiore sotto il titolo della Beata Vergine del Rosario; l'altare di S.Anna…delle Anime del S. Purgatorio …”. Nel tremendo sisma del 1693, la chiesa, come la maggior parte degli edifici sacri della Sicilia Sud-Orientale, andò in parte distrutta. Nel “Verbale dei danni del terremoto”, si dichiara: “Il resto delle chiese.…sono tutte atterrate, unitamente con quella del SS. Rosario, ove quotidianamente era grande il concorso della gente, recitandosi ogni dì il SS. Rosario, e specialmente in giorno di Domenica in cui si ritrovava piena la chiesa e che per la di cui caduta rende più copioso il numero dei morti e dei feriti4.” Nella prima visita dopo il terremoto, del Vescovo Asdrubale Termini, del 26 novembre1696, è scritto: “La chiesa si trova in baracca. Mons. ordinò che entro due mesi sia riedificata altrimenti rimarrà interdetta…” I lavori non furono iniziati ed il 18-2-1700 il vescovo dispose: “Dal momento che questa chiesa, nonostante il decreto della nostra precedente visita, ancora si trova in baracca, il Vicario, sotto pena della privazione dell'ufficio, la faccia demolire, trasferendo i benefici nella chiesa più vicina…” Ma finalmente, qualche decennio dopo, l'edificio fu ricostruito. Fortunatamente, a differenza di tante altre opere d'arte, i dipinti che decoravano gli altari, erano stati salvati e ricollocati nel nuovo edificio. Nella visita del Vescovo Francesco Testa del 16 febbraio1750 è data una disposizione molto importante sulla pala del Rosario: “Si accomodi il quadro dell'altare maggiore e vi si faccia la cornice”. L'ordine fu rinnovato dal successore Giuseppe Antonio De Requesens nella sua prima visita del 28 ottobre1756; nella sua seconda visita del 24 settembre 1762 c'è solo un cenno alla chiesa di S. Anna, senza aggiunta di alcuna nota, perché evidentemente tutto andava bene. Abbiamo così i termini ante e post quem del restauro settecentesco del nostro quadro.
é molto probabile che il dipinto sia stato commissionato dall'allora Barone di Spaccaforno, il Conte Blasco I Statella (1523-1578, Inv. 1561), che fu chiamato a Palermo dal Viceré e nominato Capitano d'armi di tutto il regno, con amplissima potestà e l' “Alter ego” del Viceré. Per i servizi resi e gli alti meriti acquisiti, il sovrano di Spagna Filippo II gli ampliò il privilegio di Gran Siniscalco del Regno, carica ereditaria di Casa Statella. Nel 1573-74 fu Capitano di Giustizia a Catania. Dopo la morte della moglie, Agata Gravina, entrò nella Compagnia di Gesù a Catania, dove visse santamente gli ultimi dieci mesi di vita, svolgendo l'umile ufficio di portinaio. Il pio Conte volle certo con questo dono alla chiesa di Spaccaforno testimoniare la sua devozione alla Vergine e la fedeltà e gratitudine al Re di Spagna5.
Soggetto e Personaggi6. Il soggetto della Madonna del Rosario coi misteri laterali è ispirato a una tradizione iconografica domenicana che, nei paesi cristiani d'Europa ed in Italia, risale agli ultimi decenni del Quattrocento. Nel Museo Regionale di Messina ce n'è una datata 1489, probabilmente di scuola antonelliana7. Nel Cinquecento si moltiplicano le pale d'altare che raffigurano la Madonna col Bambino Gesù in braccio, datrice del rosario a S. Domenico, assistito da altri santi domenicani e dalla famiglia dei “rosarianti”, che poteva essere composta da personaggi illustri, quali vescovi, papi, sovrani, principi, nobili committenti, ma anche da umili fedeli. Un grande impulso alla diffusione di questa iconografia fu dato dall'istituzione della festa liturgica “Sacratissimi Rosarii B. Mariae Virginis”, in ricordo della vittoria di Lepanto del 7 ott. 1571. Con decreto di Gregorio XIII del 1573, la festa fu concessa a tutto l'Ordine domenicano ed a tutte le chiese che avessero un altare proprio sub invocatione B. Mariae S.R., come appunto la Chiesa di S. Anna o del Rosario di Ispica8. Numerose sono le tele del genere, specie nelle chiese e conventi dell'ordine, sparse in tutta la Sicilia, alcune risalenti alla prima metà del '500, la maggior parte agli ultimi tre decenni del secolo. Il soggetto era perciò suggerito dall'iconografia sacra precedente e successiva al Concilio di Trento ed in parte imposto dai committenti.
Nella parte superiore è rappresentata la Vergine incoronata dalla SS. Trinità. Più in basso c'è ancora la Madonna col Bambino Gesù in braccio, nella gloria di angeli festanti, con violini, rose e rosari. Nel lato destro e sinistro ed in basso, sono rappresentati, in 14 ovali, i Misteri del Rosario: i cinque gaudiosi nel lato destro (della tela); i cinque dolorosi nel sinistro e quattro dei gloriosi in basso al centro; si noti la ”Dormitio” della Vergine, secondo la tradizione propria della chiesa bizantina, al posto dell'Assunzione. L'ultimo mistero glorioso, l'incoronazione di Maria e la gloria degli angeli e santi, è omessa evidentemente perché raffigurata in tutta la parte superiore del quadro. Sono invece aggiunti due tondi nei due angoli in basso, cari all'iconografia domenicana: l'apparizione della Madonna col Bambino in braccio a S. Domenico e la Vergine che dà l'abito allo stesso santo. Nella parte centrale sono effigiati i grandi santi dell'Ordine Domenicano. Da destra si riconoscono: S.Vincenzo Ferreri, grande predicatore, beatificato nel 1455; S.Raimondo di Penjafort (1175-1275), anche lui grande predicatore, illustre canonista, Maestro Generale dei Domenicani e redattore delle Costituzioni dell'Ordine. Segue il sommo Dottore, l'angelico S.Tommaso d'Aquino, che porta sul petto un disco col sole, simbolo della divina sapienza, secondo l'iconografia tradizionale. Di fronte c'è S.Pietro Martire di Verona (morto nel 1252), con la testa tagliata dalla scure e la palma con triplice corona in mano. Al fianco si trova il santo fondatore Domenico, col consueto giglio e la Bibbia nella sinistra, mentre con la destra riceve la corona del rosario dal Bambino Gesù. Nell'angolo infine c'è l'altro grande Dottore dell'Ordine in abito episcopale, S.Alberto Magno. Due sole sono le sante del piano inferiore: S.Caterina da Siena, che ha sul capo la corona di spine, e S.Chiara d'Assisi, con l'abito francescano ed il tabernacolo in mano. Dietro Caterina si nota un'altra monaca, che dovrebbe essere la cognata Bianchina Salimbeni; accanto, più in basso, si vedono cinque altre teste, due donne e tre uomini che, essendo rivolti alla santa, devono essere suoi seguaci. La loro identificazione non è facile, dato che Caterina ebbe numerosi discepoli, diventati famosi asceti, di ogni condizione sociale, ecclesiastici e laici, maschi e femmine.
In basso a destra domina la figura del Pontefice Pio V (proclamato santo nel 1712). La sua identificazione è sicura, perché nell'angolo sopra il suo capo c'è lo stemma della sua famiglia, Ghisleri: tre bande rosse in campo d'oro (Crollalanza). Nato nel 1504, divenuto domenicano col nome di Fra Michele Alessandrino, fu eletto Papa il 7-1-1566 e morì nel 1572. La sua elezione fu sostenuta soprattutto da S.Carlo Borromeo, Cardinale Arcivescovo di Milano, allora ventottenne, che per questo motivo è effigiato sopra il Papa con veste talare e berretta da sacerdote (come nel ritratto di Ambrogio Figino, custodito nella Biblioteca Ambrosiana). Inalbera una lunga croce astile, probabilmente per indicare la sua energica opera per la riforma della Chiesa Cattolica. Davanti al Pontefice, in ginocchio, c'è un giovane con magnifica pianeta, che sorregge il triregno: è il nipote di Pio V, Fra Michele Bonelli, anche lui domenicano, che il Papa, dietro pressante richiesta di altri cardinali, preconizzò soltanto come cardinale il 6-3-1566, ma non volle imporgli per il momento la berretta rossa, che in effetti non ha nel quadro! A lato del Papa in fila ci sono tre cardinali, riconoscibili dalla veste e dalla berretta, che potrebbero essere: il primo, anziano con la barba bianca, il Ricci, allora settantenne, uno dei papabili, o più probabilmente lo spagnolo Pacheco; il secondo, più giovane, con barba nera, il potente cardinale Alessandro Farnese, che allora (a 46 anni) cominciava ad avere i primi capelli grigi; e il terzo è il Morone, cinquantasettenne. Il Farnese, il Morone ed il Pacheco, unitisi al Borromeo, avevano capeggiato il partito vincitore nell'elezione del Papa. La scelta dell'Alessandrino, uomo di vita santa e rigorosa, riusciva molto gradita al Re di Spagna Filippo II, come risulta dalla lettera a lui indirizzata il 7-1-1566 dal Pacheco, che esprime la “grande letizia per aver dato alla chiesa un Papa così esemplare, quale richiedevano i tempi.”(Pastor, Storia dei Papi).
E veniamo infine ai personaggi della corte spagnola del lato sinistro. In primo piano, nell'angolo come il Papa, c'è il Sovrano Filippo II, in splendida armatura con gorgiera e corona in capo; tiene con la sinistra l'astuccio dello scettro e porta appeso al collo, come in molti suoi ritratti famosi, il Toson d'Oro, la suprema onorificenza cavalleresca, passata dagli Asburgo ai Re di Spagna, di cui il padre Carlo V lo aveva nominato Gran Maestro. Essendo nato nel 1527, nel 1567 (data del quadro), aveva quaranta anni; la sua fisionomia corrisponde a quella dei ritratti del Coello e del Goja. Ai piedi, in ginocchio anche lui, in magnifica veste di guerriero con in mano un'elaboratissima celata, c'è il giovane figlio ventunenne, l'Infante Don Carlos, allora erede al trono. L'aspetto corrisponde a come ce lo descrivono le fonti storiche ed iconografiche: la testa, dal viso pallido e dai lineamenti somiglianti a quelli di Filippo, era troppo grossa per il corpo mingherlino; era piccolo di statura, debole e malaticcio, aveva una gamba più corta dell'altra, forse per una caduta e una gobba sulla schiena, che si nota nel dipinto! Al fianco del Re i suoi due più fedeli ministri: Ruy Gomez de Silva, nato nel 1519, già dall'età di otto anni paggio fedele, amico inseparabile e consigliere prezioso; dietro, Ferdinando Alvarez de Toledo, Duca d'Alba (1508-1582), generale di Carlo V e poi di Filippo, abilissimo uomo di stato, il più famoso condottiero di Spagna. Sopra il Sovrano c'è la sorella, la principessa Juana, che nel 1567 aveva trentun anni; a lato il fratellastro Don Giovanni d'Austria, figlio illegittimo di Carlo V, che Filippo aveva legittimato e che nel 1571, a capo della grande flotta cristiana, riporterà la gloriosa vittoria di Lepanto contro i Turchi. Quasi nascosti gli altri tre fedelissimi: Don Antonio di Toledo, il Duca di Feria e Luigi Qujada (appena visibile). In alto, vicino a S.Chiara, la bellissima regina Elisabetta di Francia, sposata da Filippo nel 1559, dopo la morte della seconda moglie.
Datazione. Il quadro dunque, molto probabilmente, va messo in relazione alla consacrazione della Chiesa del grandioso Monastero dell'Escuriale, ed alle cerimonie indette nel dicembre 1567 per festeggiare l'avvento di Pio V. Poco prima della morte della Regina Elisabetta, avvenuta nel 1568, e della denuncia della ribellione e tentativo di fuga del figlio Don Carlos, fatto chiudere dal padre in carcere il 18- 1-1568, dove morì il 24-7 dello stesso anno. Su questi fatti, come si sa, si avanzarono sospetti, accuse e dicerie malevole contro Filippo, invero non mai provate, che offrirono la trama all'Alfieri e allo Shiller per i loro drammi e al Verdi per il suo “Don Carlos”.
L'Autore. Per quanto riguarda l'autore del dipinto, possiamo avanzare delle ipotesi più o meno attendibili. Bisogna tener conto di diversi elementi. Anzitutto somiglianze e confronti col nostro quadro offre la Madonna del Rosario della Chiesa di S.Domenico a Catania, dove oltre a Carlo V e Clemente VII, sono riconoscibili i Cardinali Farnese e Salviati, Francesco Sforza e Alessandro dei Medici. Questo quadro, già attribuito ad Innocenzo da Imola, viene ora riferito ad autore di formazione lombardo-emiliana9. é importante la data, 1531, da ritenere verosimile, non solo “in relazione all'aspetto del dipinto”, ma soprattutto all'episodio storico rappresentato. Il quadro ha infatti lo scopo di celebrare la pace tra Clemente VII e Carlo V (Congresso di Bologna 1529-30); l'evento era perciò attuale, come nel caso del nostro dipinto, e per questo motivo i personaggi sono rappresentati quasi al naturale, con chiarezza e nitida luminosità. Nove anni dopo, nell'omonima tela del Rosario della Chiesa di S.Domenico a Palermo del 1540 di Vincenzo da Pavia, lo stesso avvenimento, verosimilmente perché non era più d'attualità, è relegato nel fondo e le figure sono piccole e raccolte al centro in basso. é evidente nel Da Pavia, soprannominato “Il Romano”, caposcuola operante a Palermo nella prima metà del secolo e colà morto nel1557, l'influsso di Raffaello specie nella dolcezza e delicatezza delle figure e nella finezza del disegno dei volti delle Madonne e sante. L'opera fu replicata, fedelmente o con qualche variante, nelle tele di S.Maria di Portosalvo, della Chiesa dei Domenicani a Collesano, e anche della Chiesa di S.Domenico nella vicina (a Ispica) Modica. é molto probabile che l'autore della nostra tela abbia visto e tenuto presente queste due opere. Potremmo anche identificarlo con uno dei numerosi discepoli di Vincenzo da Pavia; è da escludere però uno dei più noti, Giovan Paolo Fondulli, perché sappiamo che giunse a Palermo da Cremona al seguito del Vicerè Ferdinando Avalos nel 1568. Si potrebbe invece fare il nome di Simone de Wobreck, il pittore olandese di Harleem della cui presenza a Palermo abbiamo notizie a partire dal 1557. Suoi sono un S. Guglielmo nella Chiesa di S. Agostino a Palermo proprio del 1567 ed una riproduzione del Rosario del Da Pavia con gli stessi personaggi, datata 1585, che ora si trova nella Galleria Regionale di Palermo. Sue sono le altre due Madonne del Rosario, quella di Isnello e quella di Santa Zita a Palermo, in cui si dimostra distaccato dal modello di Vincenzo, per il suo dinamico espressionismo e la monumentalità e sacralitrà delle figure. In quella di Isnello la figura della Madonna richiama quella di Ispica per la grazia del viso, che è però piegato a sinistra, e per la stessa positura: seduta in mezzo alle nubi e circondata da uno stuolo di angeli con rosari e viole. Il Wobreck è un pittore colto ed ecclettico che sa fondere gli schemi manieristici fiamminghi con quelli tosco-romano-partenopei ed il realismo dei pittori spagnoli operanti nel reame ed in Sicilia; evidenti anche gli influssi, oltre che del da Pavia, del romano Marco Pino e di Polidoro da Caravaggio. Ma è da rilevare che i pittori manieristi di Anversa o di Harleem erano presenti in gran numero a Napoli e in Sicilia. Essi si erano specializzati proprio nei quadri “di figura“, prevalentemente di soggetto sacro, come il nostro, molto richiesti da chiese, conventi, confraternite. Un altro elemento significativo della pala ispicese è la presenza degli angeli con viola e violino, che ha riscontro oltre che nella Madonna del Wobrek di Isnello, in quelle di S.Domenico ad Enna e di S. Pantaleone ad Alcari Li Fusi, datata quest'ultima1599 e firmata da un certo Damiano de Basilei, anche lui “forestiero“, come indica il toponimo. La “Regina Angelorum Musicorum” va messa in relazione alla diffusione della musica sacra polifonica ed è frequentemente riproposta dai maestri romani della Controriforma; e sono proprio i fiamminghi “il veicolo della divulgazione degli angeli musicanti e della polifonia nei loro dipinti”. Un riferimento vogliamo farlo anche ad Aert Mytens detto Riccardo Fiammingo, operante nel Viceregno anche lui nella seconda metà del ‘500, autore di parecchie Madonne del Rosario, e che forse fu anche in Sicilia. D'altronde non necessariamente il quadro di Ispica dovette essere commissionato e fatto in una bottega siciliana, perché poteva ben essere importato dal continente. Invero il pittore di Bruxelles, probabilmente allievo di Marco Pino a Roma, era giovane quando nel 1575 giunse a Napoli. Saltano agli occhi però le somiglianze iconografiche tra il nostro quadro e la sua Madonna del R. ora in Palazzo de Vio a Gaeta, eseguita fra il 1580 ed il 158510.Molto vicine, nella dolce e delicata espressione dei visi ed anche nelle positure, sono le figure della Vergine e del Bambino; evidenti anche i richiami nel Papa Pio V, in Filippo II e nella S. Caterina.
Ma poiché Blasco Statella, come dice l'Amico citando l'Aguilera, “fu tenuto il primo nella città di Catania, dove, per insigne prerogativa dei suoi maggiori e per diritto ereditario, sostenne la prefettura della regia fortezza”11, è più probabile che l'opera vada catalogata fra i numerosi Rosari della Sicilia Orientale, derivati dal colto ma perduto modello dell'altro caposcuola manierista, Polidoro da Caravaggio, giunto a Messina nel 1528 e lì morto nel 1543. Si potrebbe far riferimento al napoletano Deodato Guinaccia, che proprio nella seconda metà del secolo fu operoso in molti luoghi della zona orientale della Sicilia, in cui si riscontrano anche, oltre all'espressionismo di Polidoro, gli schemi manieristici di Marco Pino e gli influssi della pittura fiamminga. Nella Madonna del Rosario di S. Lucia del Mela datata 1574 egli riprende in modo “corsivo” l'iconografia tradizionale; ma la più antica attestazione della sua presenza a Messina è del 157012. Non mancano però altri pittori appartenenti alla scuola di Polidoro citati dalle fonti messinesi, come l'accademico Mariano Riccio (1510-1593) e Filippo Cardillo “il Vecchio”, autore della pala lignea dell'Annunciazione custodita nell'antica chiesa dell'Annunziata alla “Forza” di Ispica, datata 1555. Ma “la tradizione di questa famiglia di pittori era di firmare con un cardellino”, che c'é nelle due Annunciazioni di Ispica e di Sortino, ma manca nella nostra tela13. E si potrebbe anche pensare al modicano (o di Biancavilla) Bernardino Niger autore del polittico della chiesa di S. Giorgio di Modica di qualche anno posteriore al nostro dipinto (1574) . Ma non crediamo di riconoscere nella nostra pala le forme rotonde, levigate e monumentali caratteristiche del polittico modicano; i visi della nostra pala sono invece più fini ed allungati e le figure non tozze ma longilinee14. Dato il marcato carattere celebrativo dell'opera, per la statura ed il numero dei personaggi della corte pontificia e spagnola, si potrebbe ancora cercarne l'autore nella cerchia specifica dei pittori aulici e celebrativi: per esempio un Francesco Potenzano, che fu anche mediocre poeta, operante appunto nella seconda metà del '500, accademico e manierista, mandato in Spagna a decorare la cappella dell'Escuriale, oltre che a Roma, Napoli e Malta15. E invero viene spontaneo chiedersi come un pittore siciliano abbia potuto fedelmente effigiare tanti personaggi, senza averli attentamente osservati da vicino. Si può certo rispondere che in quel tempo circolavano nelle botteghe dei pittori copie a stampa, incisioni, bozzetti e miniature. Inoltre i pittori spagnoli circolanti nel vicereame potevano, ancor più delle stampe, essere i veicoli d'informazione per iconografie particolari. Non è dunque da scartare nemmeno l'ipotesi che il quadro sia opera di pittore spagnolo, o una copia o versione da dipinto simile, esistente forse in qualche chiesa o museo spagnolo, di Alonso Sanchez Cuello (1531-88), ritrattista di Filippo II. Certo, se l'autore dell'originale frequentava le due grandi corti, spagnola e romana, doveva essere un pittore di notevole valore! Basta pensare ai grandi del tempo che vi avevano accesso e venivano chiamati: dal sommo Tiziano (ritratto di Filippo II del 1551), ed El Greco (Il sogno di Filippo II), al citato Cuello e prima di lui al Pantoja. In conclusione dunque resta aperto un ventaglio di ipotesi e proposte, che l'esame dei caratteri stilistici potrà restringere, orientando verso una scelta più sicura. Ma si sa che i giudizi, anche di esperti del settore, sono spesso discordanti, relativi, poche volte confermati da successivi riscontri documentari, e comunque non definitivi. Un punto fermo si potrà mettere solo se si trova qualche nuovo documento o qualche pala simile datata e firmata.
A conclusione di questo discorso, che spero sia utile per inquadrare meglio l'opera, ed a giustificazione delle incertezze nell'attribuzione, ritengo opportuno riportare le considerazioni del Previtali16,: “In questi decenni [del regno di Filippo II], l'intreccio fra i fatti pittorici fiamminghi, quelli spagnoli e quelli del Vicereame è molto fitto…; la storia della pittura del Cinquecento nell'Italia meridionale va continuamente vista in parallelo, e vorrei dire contestualmente, a quella delle altre regioni dell'impero spagnuolo…” Ma oltre agli scambi diretti o indiretti, bisogna tener conto degli esiti paralleli, perché “la cultura spagnola” [e la dottrina e l'iconografia cattolica, specie dopo il Concilio di Trento, aggiungiamo noi] “è profondamente unitaria, a tutti i suoi livelli.” Questo spiega le serie di dipinti dello stesso soggetto e di composizione analoga, ma di autori diversi, sparsi nell'Italia meridionale, in Sicilia ed anche in Spagna. Si può dire che in questo periodo quasi ad ogni artista napoletano corrisponda un riscontro, stilisticamente gemello, sul versante iberico…”
Il valore artistico. Il modo di giudicare le opere d'arte è profondamente mutato nel tempo, specialmente nell'ultimo secolo, in cui sono stati sconvolti e rifiutati i canoni classici. Resta comunque valido il principio che per capire un dipinto bisogna tener conto delle condizioni sociali, culturali, religiose e soprattutto delle norme e del gusto estetico del tempo in cui è stato prodotto. La nostra opera è un quadro di “figura”, che si colloca in un periodo in cui si diffonde a Napoli e nell'Italia meridionale la maniera ‘ritrattistica e delicata’. In esso sono indubbiamente rispettate le regole del bello artistico, interpetrate secondo i dettami del manierismo cinquecentesco, nel disegno, nella struttura, nella forma ed espressione delle figure, nè snelle nè corte, secondo la tradizione Polidoresca; e ancora nell'armonia, nell'invenzione, nel sapiente uso e accostamento dei colori, nella leggerezza dei passaggi chiaroscurali. La composizione, complessa ma equilibrata ed unitaria, dà adito all'invenzione geniale dell'artista, specie per il numero e la disposizione, studiata, geometricamente ordinata e armoniosa, dei numerosi personaggi. Il disegno preparatorio è stato elaborato con cura e scrupolo, in particolare nella posa, nei rapporti delle figure, nei piani differenti in cui sono scalate e nella rappresentazione delle loro fisionomie secondo i canoni classici. I diversi ritratti sono vivi e non risultano statici, né fredda imitazione da bottega, ma riescono ad esprimere e suscitare nello spettatore emozioni e sentimenti. In particolare è da rilevare la figura della Vergine e del Bambino, che hanno “la forma di due lettere S, quella del Bambino retta e la Madonna rovescia”. Secondo l'insegnamento del “divino maestro”, Michelangelo, codificato nel trattato del Lomazzo del 158417, la figura umana, per avere grazia, leggiadria e movimento, doveva essere simile alla fiamma ed avere forma serpentinata. Nelle altre figure dei registri inferiori, dei santi mantellati, del Papa, del Re e dei loro dignitari, risultano osservate le altre regole per rendere “bellissime le forme delle figure: Bisogna sempre fare la figura piramidale…con ll cono della piramide, che è la parte più acuta, di sopra, e la base, che è il più ampio della piramide, nella parte inferiore come il fuoco; e si ha da mostrare nella figura ampiezza e larghezza come nelle gambe e panni di basso, e di sopra si ha da assottigliare a guisa di piramide, mostrando l'una spalla e facendo che l'altra sfugga e scorci, che il corpo si torca, e l'una spalla s'asconda e si rilevi e scopra l'altra”. E nella nostra opera tutte le figure hanno forma piramidale e corpo ‘torto e scorciato‘, e mostrano una sola spalla, ad eccezione della S. Caterina! Importante certo, specie per gli antichi, l'attenzione ai particolari; e invero l'artista si dimostra all'altezza, soprattutto nella cura delle vesti e dei volti. Se esaminati da vicino, non sembrano però ben rifinite le piccole figure dei 16 tondi laterali.
Congedandomi dalla lettura di questo quadro, custodito in un piccolo paese dell'estremo sud dell'allora Viceregno spagnolo, spero di essere riuscito a far rivivere e gustare, anche se in piccola parte, una pagina di storia, con la suggestione ed il fascino misterioso di vicende e grandi personaggi, osservando come da una finestra un momento importante della cultura e della civiltà della Chiesa Cattolica e della Spagna del Secolo d’Oro.
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1Pubblicato in Opere d'arte restaurate nelle provincie di Siracusa e Ragusa, IV (1993 - 1995) , pp. 51-55, Siracusa 1997. L'opera è stata restaurata (febbraio 1994) dal Prof. Angelo Cristaudo di Acireale, per incarico della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Siracusa.
2Nella relazione del suo Procuratore, il Can.Salvatore Lupo, del 27-2-1825, è detto: “Le Cappellanie costituite nel tempo, a favore della chiesa, fanno ritenere che essa sia stata fondata in epoca anteriore al 1600.” Cfr. L. Arminio, Spaccaforno nel Sec. XIX vol. II, p.68, Ispica I985.
3 Le Sacrae Visitationes dei Vescovi Siracusani alle Chiese della vasta diocesi (S.V.E.), dalla prima metà del sec. XVI in poi, sono custodite nell'Archivio Arcivescovile di Siracusa, rilegate in volumi non numerati, ordinati in successione cronologica. Ringrazio Mons. Pasquale Magnano che me ne ha permesso la consultazione e la ripresa fotografica.
4 Questo “Verbale dei danni arrecati all'antica Spaccaforno dal terremoto dell'11 gennaio 1693, sottoscritto dai Giurati del tempo, dal Parroco e dai PP. Guardiani dei tre conventi”, ‘esumato dalle vigili ricerche del Dott. Innocenzo Leontini’, fu pubblicato da G. Agnello, in ASSO S. II a. VII, pp. 391ss., Catania 1932. Cfr. anche M. Trigilia, Ispica ed il suo Territorio. Il terremoto del 1693, pp. 101ss., Ispica 1995.
5 Cfr. F. Aprile, Della Cronologia Universale di Sicilia, lib. I, p. 550. Vito Amico Statella, Lexicon topographicum Siculum, voce Hispicaefundus, pp.320s. Palermo 1757 (che riporta Aguilera S.J., Historia sicula Societatis Jesu). Trad. it. con aggiunte, Dizionario Topografico della Sicilia, a c. di G. di Marzo, voce Spaccaforno, vol. II, p.539, Palermo 1855-56. Villabianca F.M. Emanuele e Gaetani Marchese di, Sicilia Nobile, parte II, lib. III, pp. 339ss., Palermo 1754. V. Favi, Storia Genealogica della Famiglia Statella, ms. inedito del 1760 ca, posseduto dalla fam. Vella di Ispica. Una figlia di Blasco, Ippolita, fu moglie di Cesare Colonna Romano Barone di Fiumedinisi. E furono proprio questi Signori che, alla fine dello stesso secolo XVI, commissionarono per la Chiesa Madre di Fiumedinisi un'altra Madonna del Rosario al toscano Agostino Ciampelli (Firenze, 1565- Roma, 1630); cfr. la scheda di F. Campagna Cicala in “Opere d'arte restaurate”, 1980-85, pp. 75-82, Messina, 1986.
Alla fine degli anni sessanta, la Chiesa è stata ceduta al Comune di Ispica, e di recente la Soprintendenza ha provveduto al suo restauro. Il dipinto fu salvato da sicura rovina grazie all'interessamento del Maestro d'Arte Simone Caccamo e sistemato nei locali della Chiesa del Carmine; per incarico dell'Ufficio Diocesano, un intervento conservativo fu operato dalla restauratrice Isabella Lentini. Nel 1989 è stato rinvenuto e studiato dallo scrivente, che ha fatto la scheda storico-artistica per la Soprintendenza ed ha interessato Padre Paolo Mansueto a provvedere al suo trasferimento a S.Maria Maggiore, da cui dipende la nuova chiesa di S.Anna. Di recente, in accordo con Parroco e Arciconfraternita, è stato collocato nella parete destra dell'altare maggiore.
6 Cfr. per i diversi personaggi: E.I.T. (Enciclopedia Italiana Treccani), Roma 1929-49. Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano,1949-54. Enciclopedia dei Santi, Roma 1960ss. Per l’iconografia: L.Rèau, Iconographie de l’art chrétien, Paris 1959; U.Knoben, Lexicon der Christichen Iconographie, Rom-Freiburg-Basel-Wien, 1976. Per il Papa S.Pio V cfr. anche: L.Von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, trad.ital.di A.Mercati, Vol.VIII, Pio V, Roma 1960; C.Castiglioni, Storia dei Papi, vol.II, Torino 1957, pp.341ss: a p. 342 c’è lo stemma. Per il Re di Spagna e la sua corte vedi anche: Ch. Bratli, Philippe II, roi d'Espagne, Paris 1912. David Loth, Filippo II, trad.ital. di F.Alessio, Milano 1959.
7 Cfr. la voce ‘Rosario’ in Enc. Catt. P. Radò, Enchiridion Liturgicum, vol. II, pp. 1355s, Romae 1966.
8 Cfr. Anna Barricelli, La Pittura in Sicilia dalla fine del Quattrocento alla Controriforma, in “Storia della Sicilia”, vol.X, p. 6 e n. 17, p. 60. Palermo 1981, Per la pittura del ’500 in Sicilia in genere, per gli artisti citati e per la relativa bibliografia, cfr., oltre questo importante studio (pp.1-72): G. Previtali, La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, Torino 1978. T. Pugliatti La Pittura in Italia - Il Cinquecento , tomo II, p. 515ss., Electa, Napoli 1986. Eadem, La Pittura del Cinquecento in Sicilia. La Sicilia Orientale, Electa, Napoli 1993. Si consulti anche l'indice degli artisti in “Guida d'Italia - Sicilia, del T.C.I., sesta ed., Milano 1989.
9 Cfr. T. Pugliatti La Pittura del Cinquecento in Sicilia.…op. cit., p. 193.
10 Cfr.. P.L.Leone de Castris, La pittura del Cinquecento a Napoli. L'ultima maniera, pp. 85-88. Electa, Napoli 1991. Per la datazione esprimo dei dubbi perché nelle teste del sovrano con la corona e del papa col triregno, che emergono dietro i tre santi del lato destro del registro inferiore, mi sembra di riconoscere le due figure del nostro quadro. é ben difficile spiegare come il Mytens e più ancora i committenti ecclesiastici abbiano potuto riproporre un Papa ormai defunto, sotto il pontificato di Gregorio XIII.
11 Cfr. la nota 4
12 Cfr. G. Previtali, op. cit., p. 60 e n 18, p. 81. T. Pugliatti, La Pittura in Italia …, op. cit., p. 516.
13 Cfr. M.Trigilia, Ispica ed il suo territorio, cit. pp. 149s. T. Pugliatti, in “Opere d'arte restaurate nelle Provincie di Siracusa e Ragusa, 1987-88”, pp. 31-33. A. Barricelli, op. cit. p. 25; questa studiosa gli attribuisce una Madonna, S. Anna e S. Venera, nella Matrice di Novara.
14 Sul Niger cfr. soprattutto V. Librando, in “XI Catalogo di opere d'arte restaurate, 1976-78”, pp. 83-89, Palermo 1980; T. Pugliatti “La pittura del Cinquecento in Sicilia. …”, op. cit. pp.185ss.
15 Cfr. A. Barricelli, op. cit. p. 49.
16 Op. cit. p., 70.
17 Ediz. 1844, vol. I, pp. 33-35.
Marzo 1994
IL RESTAURO DELLA MADONNA DELLA CAVA DI ISPICA1
é stato di recente portato a termine dal Prof. Giacomo Platania e collaboratori, sotto la guida del Direttore della Sovrintendenza Gioacchino Barbera, il restauro della nicchia della Chiesetta di S. Maria della Cava di Ispica. L'opera meritevole è stata promossa dal Rotary Club di Modica, nel 1993, per iniziativa dell'allora Presidente, Dott. Franzo Bruno Statella. Nella parete di fondo della lunetta, l'immagine della Madre di Dio col Bambino e le altre figure all'interno dell'arco presentavano tre strati di intonaci palinsesti. Rimosso quello esterno più recente, conosciuto agli studiosi e fotografato, è stato asportato il secondo e ricomposto su una struttura in plastica della stessa forma e dimensioni della nicchia. é venuto così alla luce il primitivo affresco del terzo strato e si può ora fare una lettura più sicura.L'appartenenza dell'immagine al cosiddetto tipo della “Madre di Dio Hodigitria” o Madonna del Buon Cammino, proposta ultimamente2 è ancora valida; mi sembra però che sia accettabile e forse preferibile il prototipo affine della “Basilissa”, cioé Regina assisa in trono col Bambino sulle ginocchia. Invero il trono non si vede, ma, a parte il fatto che in questa iconografia non è necessario, non si può escluderne la presenza perché c'è lo spazio sufficiente e forse si intravede qualche linea del disegno simile a quello dell'icona su tavola detta Madonna del Piliere, della Cattedrale di Siracusa del Sec. XIII3 . E con questa immagine c'è una forte affinità: è identica l'inclinazione del capo, la forma e le pieghe del velo rosso che lo ricopre; si potrebbe, credo, addirittura tentare di integrare il volto mancante con una sovrapposizione fotografica! Identico anche il Bambino, nelle misure, nell'altezza, nella forma del nimbo, nella posizione, nella ieratica solenne, divina frontalità. Non escluderei che l'autore sia lo stesso, anche se si può obbiettare che non era difficile riprodurre queste sacre immagini dai lineamenti canonici e senza sensibili variazioni espressive. Le mani della Madonna erano disposte allo stesso modo, come risulta dallo strato successivo che le ha ricalcate: la destra era sollevata al petto, la sinistra sosteneva il bambino.
La rappresentazione della Teotokos è molto diffusa nelle chiese rupestri della Sicilia e dell'Italia meridionale, ma bisogna distinguere le diverse iconografie presenti nell'arte cd. “bizantina”, sia del periodo premusulmano, sia di quello successivo alla riconquista normanna, che con la rinascita del culto cristiano vide una ripresa del gusto bizantineggiante non solo nelle grandi cattedrali ma anche nelle manifestazioni minori dell'arte. Infatti per esempio la Madonna della grotta di S. Nicola nella testata nord della stessa Cava d'Ispica stringe il Bambino con dolce abbraccio; è la Madre pietosa, “Eleousa”, verso i cristiani e affettuosa verso il figlio da lei nato, visto come bambino-uomo da amare. Qui invece non rivolge lo sguardo al Figlio perché è considerato come Figlio di Dio da adorare. E la Mater Domini recentemente scoperta nella chiesetta rupestre di San Nicolò a Modica, appartenente al genere Basilissa, tiene il bambino sul grembo, ma in posizione centrale4. Il modellino dell'edificio turrito sostenuto dal Bambino con la mano potrebbe essere il “fortilitium” di Spaccaforno.
Per quanto riguarda i caratteri artistici, i tratti rimasti del viso del Bambino mi sembrano delicati e ben fatti: in particolare gli occhi, che invece sono grossolani negli altri affreschi; si sarebbe portati a considerare l'autore come un artista di buon livello, mentre le figure delle altre chiesette sono opera di modesti madonnari artigiani provenienti dal mondo bizantino o più probabilmente di artigiani locali,: testimonianza di devozione popolare senza alcuna pretesa artistica. Interessante la decorazione geometrica in nero e rosso dell'arco della lunetta con otto rettangoli quadripartiti ed ornati da spirali. Simili decorazioni si riscontrano nelle grandi cattedrali normanne.
Le figure del secondo strato rivestono un notevole interesse dal punto di vista agiografico, iconografico e della tradizione religiosa. In alto è effigiata la colomba dello Spirito Santo di elementare fattura: ha le ali spiegate ed è al centro di cerchi raggianti color rosso fuoco; ai lati ci sono alcune stelle. Un piccolo globo con spirali nell'angolo superiore destro mi sembra richiami il famoso monogramma del Nome di Cristo del grande predicatore francescano S. Bernardino da Siena; la sigla caratteristica, I.H.S.(Jesus Homi-num Salvator) è scomparsa, ma qualche traccia delle lettere in nero pare sia rimasta.
Nel lato destro c'è una delle scene più famose e rappresentate della vita di S. Francesco d'Assisi: l'impressione delle stimmate sul monte della Verna avvenuta nel 1224. Pochi gli elementi rimasti, ma sufficienti per il riconoscimento: in alto il Crocifisso in forma, come dicono le fonti, di Serafino alato, di cui si vedono solo le tre coppie di ali incrociate della parte superiore: in basso si vede solo la parte sinistra dell'aureola e dell'omero del santo e la mano con le dita e la palme aperte. Molto probabilmente il Santo era in ginocchio, in estasi, nel momento di ricevere i segni della passione. Si veda come possibile esemplare la raffigurazione di Pietro Lorenzetti (sec. XIV) nella Basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi. Sopra a sinistra, su uno sperone roccioso ( il Sasso Spicco), la chiesetta della Verna. Questa scena fu riproposta, ma con figure più piccole, nell'ultimo strato prima leggibile, anche se in frammenti.
Nell'altro lato infine si vede la parte inferiore di una figura in ginocchio, in parte coperta da rozza tunica color marrone, e col braccio sinistro piegato al gomito; sullo sfondo una ripida parete rocciosa con sulla cima quattro alberelli, mentre nella parte bassa, dietro il Santo, si alzano tre cipressi stilizzati dall'alto fusto. Nel fianco sinistro pende una striscia di cuoio, verosimilmente tenuta in mano, che può essere un flagello per disciplinarsi. Si tratta di S. Ilarione, il taumaturgo venuto a Cava d'Ispica nel 363 che, secondo l'antica tradizione confermata dal Vito Amico nel suo Lexicon Topographicum Siculum del 1757, abitò nelle vicinanze in una grotta e veniva spesso ad adorare il SS.mo Crocifisso a cui era dedicata la chiesa, poi trasformato in Cristo alla Colonna. Questa raffigurazione fu ripresa nell'ultimo strato ora scomparso ed in altri parti dell'abside, come ci confermano il Moltisanti e la Fronterrè. Il paesaggio rupestre è quello della Cava; il pio eremita sta in ginocchio davanti al Crocifisso e la parete rocciosa sembra proprio quella in cui è scavata la chiesetta5. Simili paesaggi con le roccie ed i caratteristici alberi sono comuni a scene della vita dei Padri del deserto dipinte dai pittori del rinascimento.
E veniamo alle sette piccole figure disposte in fila davanti alla nicchia, scoperte ora dopo la rimozione dell'intonaco sovrastante. L'immagine più importante è quella del Cristo legato alla Colonna col braccio sinistro, mentre il destro è inclinato in avanti verso il basso e lascia sgorgare dalla ferita della mano un fiotto di sangue, raccolto di sotto in un calice di cui si vede purtroppo solo in parte la coppa.
Il Sangue Preziosissimo di Cristo è diventato, a cominciare dal basso Medioevo, oggetto di particolare devozione e fu divulgato da S. Bernardo da Chiaravalle, S. Gertrude la Grande, il francescano S. Bonaventura, ed altri. Ne sono testimonianza le miniature, pitture, sculture, vetrate che raffigurano angeli i quali raccolgono in calici il sangue versato dal costato, dalle mani e dai piedi del Crocifisso; e probabilmente anche nel nostro affresco il calice era tenuto in mano da un angelo. Anche la leggenda del santo Graal, il calice usato da Cristo nell'ultima cena, e le reliquie del Sangue di Cristo contribuirono alla diffusione del culto; ma le prime feste liturgiche in chiese locali vengono approvate dalla Santa Sede nella seconda metà del '500.
Accanto al Cristo, con veste scura e manto rosso, c'è il discepolo più caro e vicino al cuore del Salvatore, S. Giovanni. Ha nella sinistra il calice che ricorda l'ultima cena, la presenza ai piedi della croce ed il suo ministero sacerdotale. Secondo l'iconografia comune nelle raffigurazioni occidentali dei secc. XIV-XVI (ricordiamo Andrea del Castagno e D. Ghirlandaio), si distingue dagli altri apostoli perché giovane bellissimo e dalla folta chioma.
La croce ad X, detta croce di S. Andrea, ci fa riconoscere il successivo apostolo. Il suo culto fu introdotto in Italia nel periodo bizantino, ma ormai siamo lontani dal rigido schematismo nei volti, nei panneggi e nel disegno propri dell'arte bizantineggiante; qui il volto aggraziato ed espressivo come quello degli altri santi dimostra l'influsso dell'arte italiana del quattro e cinquecento dove, accanto al santo con la croce latina, si era diffusa anche la raffigurazione della croce ad X che prevarrà poi nel seicento.
Dietro, c'è l'Apostolo delle genti, S. Paolo, riconoscibile per i caratteri costanti della sua fisionomia: fronte alta, naso aquilino, barba a punta e scura nella pittura.
Al suo fianco c'è il giovane compagno e discepolo S.Luca, col libro del vangelo aperto in mano, elemento precipuo della sua iconografia.
Gli ultimi due santi sono i grandi fondatori degli Ordini religiosi più importanti del basso medioevo, S.Domenico e S. Francesco. Il primo porta al solito una breve barba, capelli lisci ed il libro della Buona Novella da annunziare, caratteristico del Patriarca dell'Ordine dei Predicatori. Il Santo poverello si riconosce invece dal saio marrone e nero sugli omeri. L'iconografia è quella idealizzata dalla tradizione giottesca, giovane imberbe e dal volto piano e sereno; l'espressione esprime gli affetti interiori ed i tratti sono gentili e delicati.
Per la datazione di questa teoria di Cristo Apostoli e Santi, possiamo orientarci dunque alla seconda metà del '500. A conferma abbiamo dei riferimenti esterni. Anzitutto la presenza dell'Ordine Francescano ad Ispica. Sappiamo che la Sicilia accolse l'ideale francescano sin dal suo nascere e, secondo la tradizione, nei paesi vicini, Noto, Scicli e Ragusa i primi conventi furono fondati da S. Antonio nel 1225. Ad Ispica però, l'ideale del Serafico Padre giunge nella prima metà del '500. Infatti il primo convento, fondato dai Frati del Terz'Ordine Regolare, col titolo di S. Maria della Croce, risale agli anni 1515-20. Nel 1561 D. Antonio Statella e Caruso concesse ai Minori Osservanti la proprietà del Convento lasciato dai Terziari6. Per quanto poi riguarda S. Domenico, lo troviamo effigiato, assieme ad altri santi del suo Ordine, in un grandioso quadro della Madonna del Rosario, proveniente dalla Chiesa di S. Anna e databile al 1567 7.
Interessanti infine i riscontri con le relazioni delle Sacre visite dei Vescovi siracusani8. Nella visita del 1542 la chiesetta è chiamata S. Maria della Cava. In quella del 1568, S. Maria della Cava sotto il nome dell'Assunzione e nel 1605 si parla della “fabbrica della nuova Chiesa di S. Maria Maggiore”.
Ecco, secondo la nostra ricostruzione, le fasi delle modifiche e riadattamenti nel corso dei secoli. La chiesetta del periodo paleocristiano era contenuta interamente nella grotta ed aveva l'abside ad oriente; lì si trovano i più antichi affreschi del periodo bizantino-premusulmano, di cui purtroppo restano misere, illegibili tracce. Probabilmente nel periodo normanno-svevo l'abside venne chiusa da un muro e fu trasformata in sacrestia.
La parete rocciosa interna a nord con la nicchia diventò la nuova abside e nella lunetta fu effigiata la Vergine (primo strato). Nella prima metà del '500 gli affreschi furono ridipinti ( secondo strato). Ai primi del '600 (1605 ca.) i pannelli pittorici vennero ancora una volta ritoccati ed altri ne furono aggiunti (terzo strato); la chiesa fu ingrandita con la costruzione di un avancorpo che si protendeva fino al fondo della cava, nelle cui pareti laterali furono ricavati sei altari. Nel terremoto del 1693 la parte esterna crollò, la parete rocciosa fu chiusa e la chiesa rupestre ritornò alle misure originarie.
Vogliamo concludere con l'auspicio che anche la restante ben più vasta superficie affrescata del sacro speco venga al più presto restaurata, prima che gli intonaci si sgretolino del tutto. C'è da sperare che il Rotary o altri benemeriti Sponsor, se non la Soprintendenza, finanzino questa opera di grande valore per la conservazione ed il recupero del nostro prezioso patrimonio culturale, religioso, storico ed artistico.
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1 Articolo pubblicato nella rivista Pagine del Sud , Ragusa giugno 1994.
Bibliografia essenziale. Per la Chiesetta di S. Maria della Cava, cfr. A. Moltisanti Ispica (già Spaccaforno), Siracusa 1950, pp. 74-78. R. Fronterrè Turrisi, La chiesa di S. Maria della Cava d'Ispica, Ispica, 1978. M.Trigilia, Storia e guida di Ispica, Ragusa 1992, pp. 73-75. Inoltre, S. Minardo, Cava d'Ispica, Ragusa 1905. Di Stefano G. Cava d'Ispica, Ragusa 1983. Bellisario S., Cava d'Ispica, voll. I e II, Ispica, Modica 1987-88. A. Messina, Le chiese rupestri del Val di Noto, pp. 80-83, Palermo, I994.
Per le immagini sacre bizantine-tardo medievali, cfr. Lazarev V., Storia della pittura bizantina, Torino 1967. Orsi P., Sicilia Bizantina, Roma 1942. Pace B., Arte e civilltà della Sicilia antica, Vol. IV: Barbari e Bizantini, Roma 1949. Agnello G., Le arti figurative nella Sicilia Bizantina, Palermo 1962. Messina A., Le chiese rupestri del Siracusano, Palermo 1979. Id., La Teothocos nell'iconografia bizantina e normanna della Sicilia orientale, in “Quaderni di Sinaxis”, 5, Catania, 1989. V. Pace, Pittura bizantina in Italia, in AA.VV., “I Bizantini in Italia”, Milano 1982, pp. 429ss. Fonseca D.C. (a cura di), La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee, Lecce 1986. Per l'iconografia dei santi in generale confronta le singole voci in: E.I.T. (Enciclopedia Italiana Treccani). Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano,1949 ss. Enciclopedia dei Santi, Città del Vaticano, 1961 ss. L. Rèau, Iconographie de l'art chrétien, Paris, 1959. U. Knoben, Lexicon der Christichen Iconographie, Rom,-Freiburg-Basel-Wien, 1976.
2 Associazione Russia Cristiana “San Vladimir”, Immagini rupestri bizantine nel sisiracusano-Memorie della religiosità di un popolo, Siracusa 1992, pp. 92-95. Così anche A. Messina, op. cit., p. 83, Palermo, I994.
3 Riprodotta nel testo summentovato a p. 109.
4 Cfr. G. Di Stefano, La chiesetta rupestre di S. Nicolò inferiore a Modica., Modica, I993.
5 Cfr. M. Trigilia, Ilarione, il santo vissuto a Cava d'Ispica, Ispica 1982
6 Cfr. M. Trigilia, Storia e guida di Ispica, p.61 Ragusa,1992.
7 Cfr. M. Trigilia, La Madonna del Rosario di Ispica, in “Avis Iblea, Notiziario dell'Avis provinciale di Ragusa”, 1993/2.
8 Fotografate dallo scrivente nell'Archivio Arcivescovile di Siracusa e, si spera, di prossima pubblicazione.
18 SETTEMBRE 1994
FESTA DELL'ADDOLORATA - UN EVENTO STRAORDINARIO- LA MADONNA MUOVE GLI OCCHI1
… La sera di domenica 18 settembre Domenico Di Martino un giovane ispicese di 24 anni portatore di handcap, devoto di S. Maria Maggiore, porta in chiesa la sua telecamera nuova per filmare la processione dell'Addolorata. Ma questa non può aver luogo perché imperversa un nubifragio. Il Parroco Paolo Mansueto allestisce allora la processione lungo la navata centrale. Con mano mossa, come può averla un principiante che prova a prendere dimestichezza con il nuovo mezzo, Domenico manovra la telecamera e si accorge, zumando, che la statua chiude i suoi grandi occhi e poi li riapre. Si stropiccia lui stesso gli occhi credendo a un'illusione ottica, riprova e rivede lo stesso fenomeno. Non sa che poco prima una decina di parrocchiane hanno richiamato l'attenzione di Don Mansueto per fargli notare che la Madonna aveva chiuso gli occhi. Il parroco non ha dato loro ascolto, invitandole a proseguire la liturgia.
Poi Domenico dice al parroco che nella telecamera si vede tutto. E Don Mansueto verifica così che le palpebre della statua si sono veramente abbassate e rialzate. Don Mansueto consegna la stessa sera il filmato a un fotografo ed ha conferma che non è stato manipolato. I fedeli si sentono allora autorizzati a gridare al prodigio e si ricordano… che proprio la sera della domenica precedente alcuni parrocchiani avevano notato come l'aspetto della Madonna avesse qualcosa di insolito. Dice ora P. Mansueto: “ Era il giorno della festa dell'Addolorata, ripristinata solo da pochi anni [per volontà dello stesso parroco e dell'associazione dell'Addolorata] a Ispica. Ciò può aver suggestionato i miei parrocchiani che tanto l'hanno voluta. Ma anch'io mi sono accorto che la Madonna aveva un'espressione, come posso dire, umanizzata.”
In seguito tecnici fotografici e televisivi esperti venuti da Roma hanno attentemente esaminato il filmato e non hanno potuto dare una valida spiegazione tecnica del fenomeno.
Secondo noi l'evento, pur con la dovuta tradizionale prudenza delle autorità ecclesiastiche, secondo l'ammonimento dell'Apostolo Paolo, che dice di non disprezzare le profezie ma di esaminarle ed accogliere quello che è vero e buono, può ben essere visto come “segno” della presenza della Madre di Dio, del suo compiacimento per la devozione verso di Lei dei fedeli e del suo desiderio di attirare tutti a sè e per Lei al Figlio suo Gesù Cristo. D'altra parte parecchie volte, in tempi e luoghi diversi altre statue della Madonna si sono animate: così nel 1971 ad Eisenberg in Austria e più di recente nel 1988, ad Ardee in Irlanda, una statua della Vergine ha mosso le mani e aperto e chiuso gli occhi2.
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1 Riportiamo l'articolo comparso nel quotidiano “La Sicilia” di venerdì 23 settembre 1994 a firma di Gianni Bonina.
2 Cfr. G. Hierzenberger - O. Nedomansky, Tutte le apparizioni della Madonna in 2000 anni di storia, PIEMME, Asti 1996.
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