MELCHIORRE TRIGILIA

 I VIAGGI ED I LUOGHI DI ULISSE IN SICILIA

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PARTE SECONDA

LA NARRAZIONE OMERICA.. 11

L’ETNA E I CICLOPI 16

 

 

LA NARRAZIONE OMERICA

   Secondo il racconto che Ulisse fa dei suoi viaggi ai Feaci (Od. IX-X), quando, provenendo dal paese dei Ciconi nella Tracia (IX,39-61), sta per doppiare il Capo Malea, un vento che viene da Nord lo respinge indietro lungo Citera (Cerigo) (IX,62-81). Al 10° giorno (IX, 82-104) approda nel paese dei Lotofagi.

 

IL PAESE DEI LOTOFAGI

   Il paese dei Lotofagi dell’Odissea sarebbe da collocare sulle coste della Cirenaica (Libia), perché in quella zona, su un promontorio, secondo Erodoto (4,177), viveva il popolo dei Lotofagi. Anche lo Ps. Scilace (par.110) parla dei Lotofagi che abitavano nell’isola Bracheia, collocata nella Piccola Sirte (Senof., Anab., 3,2,25; Polibio I,39,2: Teofr. H.P., IV,3; Strab. III,157; Stadiasmus 103) e identificata con l’isola di Gerba in Tunisia. Fra i due diversi siti c’è però una distanza di oltre 1000 Km!  Omero  invero  parla di terra non di isola (IX,84). Ed è si-

gnificativo che Omero non la chiami né Libia, né Egitto, terre ben note ai Greci e più volte nominate nell’Odissea. Inoltre lo stesso Scilace (par. 22), assieme ad Eratostene (fr. III,b,112 Berg. Schol. Apoll. Rod. IV 1215), localizza nell’Illiria un altro popolo di Lotofagi.

   Altri invece, antichi e moderni, indicano il territorio di Agrigento e Camarina. (Schol. ed Eustath., ad Odyss, X,1: Schol. ad Lycophr., 813, seguiti dal Columba e dal Pace).

IL LOTO

IL LOTO

LA NINFEA

 

Col nome di loto i Greci e i Romani indicavano una dozzina di piante, arboree ed erbacee, terrestri e acquatiche.

  Riportiamo la narrazione omerica. Odissea, IX, 83,ss.: “Al decimo giorno arrivammo alla terra dei Lotofagi, che mangiano cibi di fiori. Qui sul lido scendemmo e attingemmo dell’acqua… Poi mandai dei compagni a informarsi che gente su quella terra vivesse, mangiando pane… I lotofagi non meditarono la loro morte ma diedero del loto da mangiare. Chi di loro però mangiò del loto, il dolcissimo frutto, non voleva…tornare, ma volevano là tra i Lotofagi a “strappar” loto restare e scordare il ritorno…”. Importante è il verbo “erepto” usato da Omero che corrisponde al latino eripio, italiano “strappare”, il quale indica esattamente l’azione del tirar su dal fondo melmoso la pianta acquatica del loto

   A noi sembra evidente che si tratta del “loto egizio” o giglio del Nilo, rappresentato in vari modi nell’arte egiziana, minoica e greca, la “numphaea lotus descritta anch’essa da Erodoto, che nel libro II,92 delle Storie dice: “ Quando il fiume [Nilo] è in piena e la pianura ne viene inondata, spuntano dall’acqua, con grande abbondanza, dei gigli, che gli Egiziani chiamano loto.. Essi li colgono e li seccano al sole; poi, estratto quanto c’è nel cuore del loto, che è simile al papavero, lo pestano e ne confezionano dei pani che cuociono al fuoco. C’è poi anche la radice del loto che può essere mangiata, ed è abbastanza dolce; è rotonda e grossa quanto una mela.”. Anche Teofrasto (4, 10) descrive questo loto egizio. E’ una pianta acquatica che nasce nelle zone inondate del Nilo e anche dell’Eufrate; ha fiori bianchi e il frutto, simile a un papavero, contiene molti semi. Gli Egizi li facevano seccare e dai semi macinati ricavavano farina e pani. La radice, detta “corsio”, era rotonda e grossa come una mela. Ed è conosciuto come “loto sacro” da Plinio (13,307).

   Tutto corrisponde con Omero. Questa pianta, dal bellissimo fiore di vario colore, veniva “estratta” con la radice e se ne ricavavano pane; il pane (“siton”) che, secondo Omero, la gente del luogo mangiava. Dato che il loto, come dice Erodoto, è simile al papavero, è un oppiaceo, con effetti pari a quelli della cocaina, dell’eroina, della marijuana, dell’hashish: euforia, sensazioni di benessere psicofisico, effetti sedativi e sonniferi (l’oblio di cui parla Omero), riduzione della fatica, allucinazioni; e i fenomeni comuni a tutte le droghe, la dipendenza e assuefazione con la necessità di aumentare la  quantità  e  la frequenza del consumo, e la “sindrome da astinenza”, con gravi alterazioni psicofisiche, qualora se ne sopprime l’assunzione. Ecco perché Ulisse fa gran fatica a “disintossicarli”, e fa ricorso a mezzi drastici, proprio come oggi per i tossicodipendenti! “Sulla nave li trascinai per forza, piangenti, e nelle concavi navi sotto i banchi dovetti cacciarli e legarli” (Odiss. IX, 98-99).

   Possiamo perciò escludere l’opinione comune che si tratti del loto cirenaico, di cui parla lo stesso Erodoto (2,96 e 4,177) e Polibio (XII,2,2) e i latini Properzio (3,12,27) e Ovidio (ex Pont. 4,10). Questo è ricordato come albero non grande, probabilmente il “rhamnus lotus, o “ziziphus lotus”, sorta di giuggiolo. I suoi fiori sono piccoli, verdi-giallastri e il frutto è una drupa ovale o rotonda di ca. 3 cm, rosso-bruna con polpa bianco-giallastra di sapore dolce e vinoso e grosso nocciolo (cfr. E.I.T. s.v.). Il suo “frutto”, dice Erodoto, “grosso quanto una bacca di lentisco, (lo Ps.Scilace lo paragona invece al corbezzolo) per dolcezza  è molto simile ai datteri. Se ne nutrivano i “Lotofagi” che ne ricavavano anche un vino”. E’ quindi un albero e non “un fiore”; dal frutto dolce e nutriente, che  si  “raccoglieva”  e  non  “si  estirpava”, non se ne ricavava

“pane” ma vino, certamente per fermentazione del fruttosio. Teofrasto  (Hist.Plant. 4,3-4) descrive le caratteristiche di questo loto cirenaico della grandezza di una mela e del suo frutto dolce e nutriente, da cui si ricavava anche una specie di vino, cibo dei Lotofagi, che vivevano nell’isola Faride della terra Lotofagia (chiamata Bracheia dallo Ps. Scilace e Meninge da Polibio, summentovati). Aggiunge che ne esistevano diverse specie. Una di queste, già da Plinio (13,104) e da alcuni botanici dell’’800 e da qualcuno ancora oggi, è identificata col bagolaro (celtis australis); ma il suo piccolo frutto di un cm. che ha attorno al nocciolo una sottile pellicola edule, è del tutto insufficiente alla nutrizione; mentre dal legno duro e nero si ricavavano statue, flauti ecc.

  Omero nomina poi un altro loto, il “loto greco” (Od. 4,603), comune nella pianura di Sparta e di Troia e ottimo pascolo per i cavalli (Il.2,776; 14,348; 21,351); probabilmente era il trifolium frugiferum o lotus corniculatus, trifoglio. Erba dunque da foraggio per animali non cibo per gli uomini.

In conclusione i Lotofagi dell’Odissea (9,93) sono diversi dai “Lotofagi” di Gerba, e prendevano il nome dal detto numphaea lotus, pianta acquatica con fiore, diversa da tutti gli altri “loti”.

 

LA DURATA DEI VIAGGI DI ULISSE

   Il viaggio di Ulisse da Capo Malea alla terra dei Lotofagi dura 9 dì e 9 notti (IX,83ss.). Altrettanto dura quello dall’isola di Eolo alle vicinanze di Itaca (10,126s.). E dopo altri nove giorni, alla decima notte da Scilla giunge all’isola di Calipso, ma su un rottame e remando con le mani! Secondo le condizioni atmosferiche (bonaccia, mare mosso, burrasca), una nave dei tempi omerici   con  vela e rematori poteva percorrere da 1,5 a 2

nodi all’ora (1 nodo = 1 miglio marino, 1852m.). Anche se si tratta di tempi di navigazione, calcolati come nei peripli e non di numeri simbolici, è difficile ricavarne le distanze percorse, la media oraria e i lidi raggiunti: da Capo Malea alla Cirenaica Km. 450 ca.; 1100 ca. a Gerba; 750 ca. Sicilia Sud-Orientale, ma sempre in linea retta!

   Secondo noi i Lotofagi abitavano il territorio ispicese e sarebbero i nostri antenati!

   Invero proprio la numphaea lotus era presente (dopo 28 secoli dai tempi omerici!) nella prima metà del 1800 nei nostri pantani. 

Scrive infatti il giureconsulto ispicese Benedetto Spadaro nel suo  Lo stato della città  di Spaccaforno, del 1832: “Tutte queste acque (La Favara, il fiume Busaitone col vicino profondo laghetto e le Tremole, la fontana Garaffa con la palude Garifi) sono pescose e frequentate da volatili acquatici, e hanno abbondante e singolare in Sicilia, come si assicura, la pianta chiamata Ninfea volgarmente, che alzando ignude le sue radici dal fangoso fondo, spiega le larghe e verdi sue foglie sulla superficie delle acque e fiorita di gialli e non piccoli fiori, fa comparsa assai piacevole; e questi suoi fiori in decozione si stimano utili a dolcificare il sangue”. La preziosa testimonianza dello Spadaro conferma l’ipotesi dei Lotofagi solo nel nostro territorio, dato che il loto si trovava solo nelle nostre acque!

   Oggi la ninfea è presente soltanto alla foce del canale di S. Maria del Focallo ed anche nel fiume Tellaro, l’Eloro degli antichi; fiorisce in maggio-giugno con fiori bianchi e azzurri. (Si potrebbe reimpiantare nei Pantani di Ispica e nella fonte Favara, ed anche in altri pantani, trasformandoli in meravigliosi giardini tropicali!). Poiché durante le piene invernali molte piante sono spinte in mare, possiamo pensare che prima dei tempi omerici dall’Egitto,  dov’era  originaria,  le   correnti   marine   l’abbiano

trasportata nel nostro territorio, dove ha trovato l’habitat ed il microclima adatto.    

   Trova anche riscontro quanto  dice Ulisse: “Qui sul lido scendemmo e attingemmo dell’acqua”. Infatti diversi viag-giatori, dal 1500 in poi, ci attestano che le imbarcazioni si fermavano alla punta di S. Maria del Focallo per attingere acqua dolce dalle sorgenti che scaturiscono dalla roccia (oggi però quasi estinte).

 

L’ETNA E I CICLOPI

 

PIAZZA ARMERINA - MOSAICO DEL IV SEC. - ULISSE PORGE LA COPPA DEL VINO A POLIFEMO

  

J. JORDAENS SEC. XVI – ULISSE FUGGE DALLA GROTTA DI POLIFEMO

 

ACCECAMENTO DI POLIFEMO (II SEC. A.C.)

 

21

LUIS FREDERICH SHUZENBERGER – FUGA DI ULISSE

 

I FARAGLIONI DI ACITREZZA (SCAGLIATI DA POLIFEMO CONTRO LA NAVE DI ULISSE)

 

  A stento Ulisse fa imbarcare i compagni e (IX, 105s.): “di là navigammo avanti… e dei Ciclopi alla terra venimmo…”. Il viaggio fu dunque breve, perché non parla nemmeno di un giorno di navigazione; il che è spiegabile se i Lotofagi vivevano non molto distanti dai Ciclopi. La loro terra è localizzata sin dall’antichità presso l’Etna. (Tuc. 6,2; Eurip., Ciclope, 20. 95; Virg., Aen. III, 568ss.; Theocr., XI; Ovid., Met., XIII,882ss. ecc.). Invero in Omero non c’è alcun cenno specifico alla Sicilia e nemmeno all’Etna col fuoco delle sue eruzioni. L’identificazione è comunque molto antica e forse risale ai primi coloni greci in Sicilia dell’VIII secolo. È certo legata al mito dei Ciclopi, fabbri del dio Efesto, che avevano le loro fucine nelle lave e caverne dell’Etna. Euripide per questa localizzazione avrà probabilmente seguito il commediografo siracusano Epicarmo (530 - 435) nelle sue tre commedie sul mito di Ulisse, di cui purtroppo abbiamo solo i titoli, Ulisse naufrago, Il Ciclope, Le Sirene. Anche Cratino scrisse una commedia intitolata Ulixes, anch’essa perduta.

   Vicino alla costa c’è un’isola piana, “non vicina né molto lontana dalla terra dei Ciclopi”, boscosa, abitata solo da numerose capre (v.116ss.). Attraccano nel porto ben protetto dai venti. Durante la notte “una densa caligine (“aer bathei”) stava intorno alle navi e la luna non brillava nel cielo, era coperta di nuvole” (IX, 144s.). Il giorno seguente scendono nell’isola e vanno a caccia di capre.

   L’isola potrebbe essere l’Isola Lachea o di Aci, la più grande dei cosiddetti “Scogli dei Ciclopi” di Acitrezza, e “la densa caligine” e  le  nuvole  che  coprono  la  luce  della luna possono

indicare le nere ceneri dense come nubi vomitate dall’Etna in eruzione. Il porticciolo può ben essere l’altro (rispetto a quello di Ispica-Pachino) “Porto di Ulisse”, oggi Ognina di cui parla Plinio (N. H., III,89; cfr. Stat, Silv, V, 3,49), in parte ostruito da un’eruzione del XIV sec. d. C. Invero l’isola Lachea è di piccole dimensioni e vulcanica, ed il porto di Ognina si trova più a sud sulla costa vicino Catania. Ma  non  sempre,  come  abbiamo già rilevato, la descrizione omerica è fedele in tutti i particolari! D’altronde Ulisse per esplorare la terra dei Ciclopi, lascia nel porto le altre navi e si sposta con la sua. Si potrebbe pensare anche alla penisoletta di Tapsos, oggi Magnisi, nei pressi di Augusta, che è piana e collegata alla terraferma da uno stretto piccolo istmo; oppure all’Isola di Capo Passero (allora unita alla terraferma), ma sono più lontane dalla “Riviera dei Ciclopi” di Acitrezza, coi Faraglioni che sarebbero stati scagliati da Polifemo contro le navi di Ulisse in fuga (IX, 537-542).

   In Od. VI,4ss. è detto che i Feaci “vivevano prima nella vasta Iperèa , vicino ai Ciclopi”. Dunque, se i Ciclopi vivevano alle falde dell’Etna, la primitiva “vasta” terra dei Feaci, prima che, per sfuggire ai “Ciclopi che li depredavano”, si trasferirono nella Scheria, corrisponde alla vasta fertile piana di Catania. Altri (Schol. ed Eustath, ad Odyss., VI,4) la identificavano con Camarina, che invero è ben più distante dall’Etna, ca. 150 Km.

 Il libro IX termina col famoso episodio di Polifemo, la fuga per mare e il ritorno nell’isola delle capre (543-566).

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