BAAL

                           

Con questo nome, che significa "padrone" o "signore", i Semiti indicavano la divinità maschile, lo spirito della fertilità maschile.

Incarnazione delle forze naturali, Baal era legato all’agricoltura. La divinità, nota anche con il nome di Baal Hammon, era già conosciuta in Oriente nel IX sec. a.C., e i Cartaginesi ne diffusero il culto presso altri popoli del Mediterraneo. In seguito, con la romanizzazione del Mediterraneo, il culto di Baal fu identificato, dai romani con quello di Saturno e dai greci con quello di Cronos.

Quando la Fenicia passò sotto l’egemonia degli Ebrei, il dio delle genti preisraelitiche fu associato al diavolo, poiché ostile alla divinità venerata dagli Ebrei. Il nome Baal-Zebub,  che significava "signore delle mosche",[1] venne sostituito prima, nella forma disprezzativi di Baal-Zebul che significava "signore dello sterco" ed infine in Belzebù, nome con cui si indicava il signore dei diavoli. Dagli Ebrei veniva anche chiamato "Moloc", che in ebraico significa "re dell'ignominia", per i sacrifici umani che gli venivano offerti e che vedevano vittime innocenti i bambini. Il sacrificio aveva luogo in santuari all’aperto e recintanti chiamati "Tofet", dove venivano interrate le urne contenenti i resti dei bambini cremati.

Tofet sono stati trovati a Cartagine, nell'Africa punica, in Sicilia a Mozia[2]e anche in Sardegna.

Il sacrificio riguardava i primogeniti delle famiglie più nobili, anche se, spesso, si ricorreva a dei sotterfugi per risparmiarli: non era, infatti, rara la ancora più barbara abitudine di comprare o rapire bambini stranieri che venivano nutriti e poi sacrificati al posto dei figli veri.

Racconta Diodoro Siculo (lib. XX.14) che durante l'assedio di Cartagine, avvenuto per opera di Agatocle nel 310 a.C., i Cartaginesi si rimproverarono di aver abbandonato la tradizione sacrificando bambini stranieri e, vedendo il nemico alle porte, si affrettarono a chiedere perdono agli dei sacrificando duecento bambini scelti tra le famiglie più in vista della città.

Le vittime innocenti di tanta barbarie prima di essere cremati venivano immolati.  Racconta Diodoro a tal proposito:

 

“A Cartagine vi era una statua di Cronos in bronzo, le mani tese, con la palma rivolta in alto e inclinata verso terra, di modo che il bambino, posato sopra di esse rotolava e cadeva in una fossa piena di fiamme”.

 

Si e' pensato che i Tofet non fungessero solamente da santuario per il sacrificio delle piccole vittime, ma anche da necropoli. Questo sarebbe avvalorato dal fatto che, in un periodo in cui la mortalità infantile doveva essere elevata, non c’è riscontro, nelle necropoli ufficiali, di consistenti sepolture di neonati.

Per spiegare il significato di questo genere di sacrificio è stato ipotizzato che esso servisse a rinnovare l'energia divina mediante il sangue dei figli migliori. Il fuoco, poi, avrebbe ridato una nuova vita divina ai bambini sacrificati mitigando, in questo modo, il dolore dei genitori.

 

Non sempre nei Tofet venivano immolati esseri umani, a volte, in sostituzione, venivano usati agnelli o altri piccoli animali, come testimoniano, nel Tofet di Mozia, i ritrovamenti di sette strati di deposizioni di urne cinerarie contenenti i resti di sacrifici, alcuni dei quali di animali[3]. I resti indicano che il Tofet fu utilizzato a partire dal VII. sec. a.C., e che l'uso proseguì anche dopo l'abbandono dell'isola, avvenuto dopo il 397 a.C..

Nel 1825, a Solunto, fu trovata una grande statua ellennistica rappresentante Baal Hammon, esposta al Museo di Palermo[4].

Un'altra testimonianza del culto di Baal si ha a Marsala, l'antica Lillibeo, dove è stata rinvenuta una stele che, oltre ad un’iscrizione in punico dedicata a Baal, rappresenta un’offerta alla divinità ed alcuni simboli della religione fenicio-punica[5]. La stele si trova ora al Museo Archeologico Regionale di Palermo.


[1] Ambrogio Donini: Breve storia delle religioni p.26

[2] L'antica citta' di "Motia" e' situata nell'attuale isoletta di S.Pantaleo poco a nord di Marsala,a circa 1600 m. dalla costa.

[3] Vincenzo Tusa ed Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale  p.56.

[4] Filippo Coarelli e Mario Torelli: Sicilia “Guide Archeologiche Laterza” p.41.

[5] Vincenzo Tusa ed Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale p.29

 

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