MELCHIORRE TRIGILIA I VIAGGI ED I LUOGHI DI ULISSE IN SICILIA Se l'argomento è di tuo gradimento aiutaci a divulgarlo tramite Facebook, Twitter o altri strumenti di social Network: |
IL MITO DI ULISSE IN OMERO, VIRGILIO, OVIDIO E DANTE
All’antica città viene dato (Pace, Uggeri, Di Stefano) il nome Apolline, messo in relazione al Tempio di Apollo e alla “Plaga” Apollinis che si colloca a Punta Castellazzo. Ma è da rilevare anzitutto che non è certa questa identificazione. L’Uggeri interpreta il Marsa Al Bawalis come Porto di Apollo; ma l’Amari, il Solarino, l’Orsi, il Nallino, il Pace, G. Agnello intendono Porto Palo o meglio “Porto Ulisse”, com’è scritto nel secondo più importante passo dello stesso Idrisi che indica le distanze fra i porti; infatti in questo elenco, al Porto dei dromoni (Pozzallo) segue La Marsa (ovvero Porto Ulisse) (Rizzitano). Ne risulta che il primo a identificare la Marza con Porto Ulisse è stato Idrisi e non il Fazello. Inoltre la distanza di 20 miglia segnata negli itinerari romani dal precedente rifugio dell’Hereo o Cymbe, sito alla foce dell’Irminio, non è esatta per non dire errata, come in tanti altri passi, come già riconosceva il Pace. Infatti lungo l’odierna litoranea non ci sono 29,6 Km (1 miglio romano = ca. 1480 mt.), ma ca. 45 Km., quindi 30 miglia. E’ da scartare l’ipotesi del Cluverio (seguita dal nostro Moltisanti) che indica il tempio a Spaccaforno, perché si tratta di una “plaga” e di itinerari per luoghi marittimi. Ma non è da escludere, anzi mi sembra preferibile, collocarlo o prima o meglio (perché corrisponde la distanza) dopo Porto Ulisse. E a conferma abbiamo due testimonianze di ruderi di antico tempio: il Fazello ne indica uno al Cozzo di S. Maria dove poi fu edificata la chiesetta omonima, e l’Houel un altro che identifica proprio con quello di Apollo, nella contrada di S. Pietro sul litorale pachinese prima di Punta Castellazzo; e lì è indicato nelle carte geografiche della Sicilia antiqua. Il Lamie invece lo colloca nel castello di Capo Passero e lo Shubring a Torre di Fano (Holm). D’altronde nella Punta Castellazzo c’era già il tempio di Ecate o Atena, edificato ai tempi di Ulisse.
Del presunto nome “Apolline” della città non c’è invero cenno nelle fonti e nelle carte geografiche. Il nome poi sarebbe stato Apollonia, come si chiamavano le altre 6 città antiche che presero il nome da Apollo, fra cui anche Apollonia di Sicilia (cfr. le v. in E.I.T.).
In verità il nome della piccola città, fondata non da Ulisse ma verosimilmente dai Greci sicilioti come stazione marittima al tempo delle subcolonie siracusane nel VIII-VII sec. a.C., è lo stesso dato al “Porto Ulisse”, secondo la tradizione riportata da Licofrone nel III sec. a. C. Ed è Cicerone (I sec. a.C.) che per primo la chiama “Odissea”, perché parla del “porto di Odissea; infatti così questo luogo è chiamato” (in portu Odysseae; nam ita is locus nominatur, Verrine. V, 34,87, secondo le recenti edizioni critiche del testo Ciceroniano (Klotz, Peterson, Bellardi); non lo chiama “Porto Odisseo”, né dice “il nome suo”, né “questo porto”, ma “così questo luogo”, cioè questa località, questa città “è chiamata”. Il Fazello (1560) avanza dubbiosamente l’ipotesi [infondata] che l’antica celebre città, di cui rinvenne le imponenti rovine, fosse da identificare con Eubea o Callipoli. Ma il Cluverio, che conosce e riporta tutti i testi greci e latini che parlano del sito, nella sua eruditissima opera Sicilia antiqua del 1619, così dice: “ Io invero sono del parere che si tratti dello stesso luogo che da Cicerone in modo corrotto [lezione ora corretta nelle citate edizioni critiche], è chiamato “Porto di Edissa, Edissae portus, che in greco è detto Odisseias limen e Odisseias acra, da Tolomeo (III,4,7) cioè “Porto di Odissea” e “Promontorio di Odissea”. E’ evidente, rileviamo noi, che sia in Cicerone che in Tolomeo non è usato
l’aggettivo “Odisseo” ma il genitivo di un nome proprio di luogo femminile; il nome comune (porto, promontorio) non ha valore di apposizione, né si tratta di complemento di denominazione ma di specificazione: è come dire “porto di Camarina o di Siracusa”, perché Camarina, Siracusa e anche Odissea non sono porti ma città. Lo stesso vale per “Caucana limen o portus (Porto Caucana o di Caucana), citato dallo stesso Tolomeo e segnato nelle carte tolemaiche. Non è vero poi, come è stato detto (L. Blanco), che “nella lingua greca i lemmi geografici come limen (porto) e acra (promontorio), mai sono accompagnati da un genitivo toponimico”. Basta citare il più importante di tutti i porti, il portus Romae dei tempi di Cicerone, la cui costruzione iniziata da Claudio fu completato da Traiano (cfr. v. “porto” in E.I.T.). Lo stesso Cicerone poi ha Cajaetae portus a praedonibus direptus (Pro L. Man. 12). C’è ancora un passo decisivo a conferma, proprio di Strabone (Lib. VI, 2,2): “I corsi d’acqua che discendono dall’Etna formano con le loro foci porti eccellenti…(Naxos e Megara). Là si trova il promontorio (acroterion) di Xifonia (Xiphonias (gen.)” . Abbiamo anche un “limen xifoneo” e una “polis Xiphonias”(cfr. G. Caracausi, Diz. Onom. Della Sicilia, Pa. 1994). Il Fazello identifica il promontorio con Capo Mulini e l’Amico di Xifonia dice: “Città antichissima, situata in quel luogo dov’è oggi Galena, verso la spiaggia meridionale della città di Aci nel seno di Catania”. Si tratta di un porto, promontorio e piccola città marinara quasi identici alla nostra città, porto, promontorio, siti anch’essi alla foce del fiume del Longarini. Piccola cittadina marinara, la nostra “Odissea”, che Strabone nella sua breve descrizione della Sicilia trascura di indicare, come molte altre.
Altra significativa conferma infine la abbiamo dalle Carte della Sicilia antiqua dove viene segnato un cerchietto, come per le altre città, e solo il nome “Odissea”, senza “portus” né “promontorium”: Philippe Briet, Sicilia vetus del 1649, Guillaume Delisle1714, Christoph Weigel, 1720, J. B. Bour-guignon D’Anville, La Sicile pour l’Histoire Romaine de M.r Rollin, 1740 ed altri. Concludiamo e ribadiamo quindi che proprio Odissea (e non Apolline) era il nome dell’antica città. Un’ulteriore si conferma ci è data da Strabone (III,149), il quale dice che in Iberia (Spagna) c’era un’altra città (ville) che portava lo stesso (egalement dice l’autorevole Jean Berard, p.335,n.3) nome di Odysseia, che si diceva fondata da Ulisse e possedeva scudi e speroni delle sue navi.
OMERO – Odissea
(XI, 306-343; tr. it. Rosa Calzecchi Onesti)
Riportiamo solo la sintesi dei suoi viaggi e vicende fatta da Ulisse alla fedele Penelope che, dopo averlo riconosciuto, lo accoglie nella camera nuziale.
Il divino Odisseo…
Quante sventure dovette subire lui stesso,
tutto narrava; lei godeva a sentire…
Narrò come in principio vinse i Ciconi, e poi
Come arrivò nella terra feconda dei Mangiatori di Loto;
e quello che fece il Ciclope e come la pena pagò
dei gagliardi compagni che divorava e non aveva pietà;
poi coma ad Eolo venne, che l’accoglieva benigno
e gli dava il ritorno; ma fato ancora non era che in patria
arrivasse; anzi di nuovo afferrandolo la procella dei venti
per il mare pescoso lo trascinava, con grave suo gemito;
e come a Telepilo, città dei Lestrigoni giunse
e questi le navi distrussero e i suoi compagni, robusti schinieri,
tutti quanti; Odisseo solo fuggì con la nave nera.
Poi di Circe narrò l’inganno e l’astuzia grande,
e come scese nelle case putrescenti dell’Ade,
a interrogare l’anima del tebano Tiresia,
con la sua nave dai molti banche; e vide tutti gli amici,
e la madre che lo partorì e lo nutriva bambino:
E come delle Sirene armoniose ascoltava la voce,
come giunse alle Rupi erranti e all’orrenda Cariddi
e a Scilla, da cui mai uomini sfuggirono incolumi;
e come del Sole uccisero le vacche i compagni;
e come con la fumante folgore l’agiloe nave colpì
Zeus che in alto rimbomba, e periromo i bravi compagni,
tutti insieme, lui solo le male Chere evitò;
come arrivò nell’isola Ogigia, dalla ninfa Calipso,
ed essa lo tratteneva, bramando che le fosse marito
nelle cupe spelonche e lo nutriva e diceva
che lo farebbe immortale e immune da vecchiezza per sempre;
mai, però, persuase nel petto il suo cuore;
e come ai Feaci arrivò, dopo molto soffrire,
ed essi di cuore come un dio l’onorarono
e per nave lo accompagnarono alla terra dei padri,
bronzo, oro, grande ricchezza di vesti donandogli.
VIRGILIO Eneide
(l. III, vv. 613ss. tr. it. di Annibal Caro)
IL RACCONTO DI ACHEMENIDE
È l’itacese che Ulisse, sfuggendo a Polifemo, dimenticò nell’Isola dei Ciclopi. Viene salvato da Enea.
Itaca è patria mia Achemenide il nome. Io fui compagno
dell’infelice Ulisse…; qui capitai
con esso Ulisse; e qui, mentr’ei fuggia
con gli altri suoi questo crudele ospizio,
per tema abbandonommi e per oblio
nell’antro del Ciclope. È questo un antro
opaco, immenso, che macello è sempre
d’umana carne, onde ancor sempre intriso
è di sanie e di sangue; ed è il Ciclopo
un mostro spaventoso, un che col capo
tocca le stelle (o dio, leva di terra
una tal peste!), ch’a mirarlo solo,
solo a parlarne, orror sento ed angoscia.
Pascesi delle viscere e del sangue
de la misera gente; ed io l’ho visto
con gli occhi miei nel suo speco rovescio
stender le branche e, due presi de’ nostri,
rotarli a cerco e sbatterli e schizzarne
infra quei tufi le midolla e gli ossi.
Vist’ho quando le membra de’ meschini
tiepide, palpitanti e vive ancora,
di sanguinosa bava il mento asperso,
frangea co’ denti a guisa di maciulla,
Ma non soffrì senza vendetta Ulisse;
né di sé stesso in sì mortal perielio
punto obliossi; chè non prima steso
lo vide ebbro e satollo a capo chino
giacer nell’antro e sonnacchioso e gonfio
ruttar pezzi di carne e sangue e vino,
che ne restrinse; ed invocati in prima
i santi numi, divisò le veci
sì che parte il tenemmo in terra saldo,
parte, con un gran palo al foco aguzzo
sopra gli fummo, e quel ch’unico avea
di targa e di febèa lampada in guisa
sotto la torva fronte occhio rinchiuso,
gli trivellammo, vendicando alfine,
col tor la luce a lui, l’ombre de’ nostri….
Enea fugge per mare dal minaccioso Polifemo e dai Ciclopi antropofagi e si dirige verso lo stretto di Scilla e Cariddi; ma il vento Borea, soffiando dallo stretto di Peloro, lo spinge indietro verso sud.
Onde repente a la sassosa foce di Pantagia, (il fiume Lentini, che sbocca sotto Agnone, davanti alla rocciosa Costa Saracena)
al megarico seno, (il golfo di Megara Hiblaea sotto Augusta), ai bassi lidi ne trovammo di Thapso (oggi penisoletta di Magnisi, con le rovine di Thapsos).
In cotal guisa riferiva Achemenide, compagno
che s’è detto d’Ulisse, esser nomati
quei lochi, onde pria seco era passato.
Giace de la Sicania al golfo avanti
un’isoletta che a Plemmirio ondoso
è posta incontro, e dagli antichi è detta
per nome Ortigia…
Indi varcammo del paludoso Eloro (oggi fiume Tellaro) i campi opimi, indi rasentiamo gli alti scogli (altas cautes) e le rocce prominenti (proiectaque saxa) di Pachino….”, scoprimmo Camarina….
La pianura passammo de’ Geloi,
di cui Gela è la terra e Gela il fiume.
Molto da lunge il gran monte Adragante (il monte presso cui
sorge Agrigento),
vedemmo le sue torri e le sue spiagge
che di razze fu già madri famose (nutrice di cavalli magnanimi).
Col vento stesso indietro ne lasciammo
la palmosa Seline (Selinunte, (allora!) ricca di palme) e ‘n su la punta
giunti di Lilibeo, tosto girammo
le sue cieche seccagne e il porto alfine
del mal veduto Drepano afferrammo (Trapani, malaugurato perché vi morì Anchise).
LE SIRENE (V, vv. 864-868)
(La nave di Enea) Era delle Sirene ormai solcando
giunta agli scogli perigliosi un tempo
a’ naviganti; onde di teschi e d’ossa
d’umana gente si vedean da lunge
biancaggiar tutti. Or sol, di canti invece,
se n’ode un roco suon di sassi e d’onde.
CIRCE (VII, vv. 10-20)
Pria rasero i lidi
ove Circe del Sol la ricca figlia,
gode felice e mai sempre cantando
soavemente al periglioso varco
de le sue selve i peregrini invita;
e della regia ove tessendo stassi
Le ricche tele, con l’arguto suono
Che fan le spole e i pettini e i telari,
e co’ fuochi de’ cedri e de’ginepri
porge lunge la notte indicio e lume.
Quinci là verso ilo dì lontano udissi
Ruggir leoni, urlar lupi, adirarsi,
e fremere e grugnire orsi e cinghiali
giacean di ferri e di ferrate sbarre
ne le sue stalle incatenati e chiusi;
e perché ciò non avvenisse ai Teucri,
che buoni erano e pii, da cotal porto
e da spia sì ria Nettuno stesso
spinse i lor legni, e diè lor vento e fuga,
tal che fuor d’ogni rischio li condusse.
OVIDIO, METAMORFOSI, (XIV, 167ss.)
(tr. it. di Ferruccio Bernini)
Achemènide… così gli rispose… « …Le grida d'Ulisse fecero quasi sommergere il vostro naviglio. Io vidi quando gittò Polifemo nell'onde divelta dai monti una gran rupe;
lo vidi di nuovo che scaraventava col gigantesco suo pugno un enorme macigno vibrato con violenza di bellico arnese, e, scordando oramai ch'io non ero con voi, paventai che i marosi o il macigno non sommergesser la nave. Poiché vi salvò dalla morte certa la fuga, il Ciclope gemendo girò tutto l'Etna, brancolò cieco pei boschi, inciampò nelle rupi e, tendendo lorde di sangue le braccia nel mare, imprecò contro i Greci: - Oh se fortuna, gridava, portasse qui Ulisse o qualcuno de' suoi compagni, nel quale potessi sfogare lo sdegno, e ne potessi mangiare le viscere e con la mia destra vive sbranare le membra e inondarmi la gola di sangue e palpitasse la carne sbranata di sotto a' miei denti, nullo o ben lieve sarebbemi il danno di questa cecità! Questo e ben altro diceva il feroce. Di squallido orrore tutto compreso guardavo quel volto tuttora di sangue molle e le mani crudeli ed il vuoto profondo dell'occhio
e le sue membra e la barba insozzata di sangue rappreso.
Morte mi stava davanti e pur era il minore dei mali.
A me pareva che già mi ghermisse e che dentro nel ventre già m'ingoiasse le membra: l'immagine avevo presente
di quell'istante che due per volta sbatté i miei compagni tre quattro volte per terra e su loro giacendo siccome
rto leone cacciò dentro l'epa vorace la carne
l'ossa il midollo e i budelli con tutte le membra ancor vive: tutto
tremavo, e per grande tristezza restai senza sangue.
o che fisso il guardavo, mentr'egli ingoiava e vomitava
membra cruente con pezzi di carne mischiati di vino, tale destino, oh infelice, pensavo mi si preparasse!
Per molti giorni nascosto tremando di tutti i rumori, sempre temendo la morte che pur desiavo, mangiavo,
per sdigiunarmi, le ghiande con erbe mischiate di fronde. Povero, solo, con niuna speranza ed esposto alla morte
e alla vendetta, non lungi di qui vidi dopo del tempo una barchetta: volai su la spiaggia, pregai con dei cenni d'esser portato lontano e ne ottenni pietà: cosi un greco montò su nave troiana. Tu pure, che sempre mi fosti
il più diletto di tutti i compagni, racconta i tuoi casi
e del tuo duce e degli altri che teco solcarono il mare ».
L'altro gli narra che regna nel mare profondo dei Tusci Èolo, figlio d'Ippota, che tiene nel carcere i venti,
cui dentro terghi di bovi, non dimenticabile dono,
prese l'eroe itacense, che per nove giorni sul mare
poi navigò con i venti propizi vedendo la terra
desiderata. Ma quando poi sorse la decima aurora,
i suoi compagni invidiosi ed ingordi di preda, credendo d'oro ripieni quei terghi, disciolsero i venti dai lacci, onde la nave si volse a quei flutti che aveva solcati
e ritornò nuovamente nel porto del re dell'Eolia.
" Quindi giungemmo alla vecchia città del Lestrigoni Lamo.
di cui Antifate aveva lo scettro. Spedito a lui, vado
con due compagni e a fatica mi salvo fuggendo con uno:
l'empio Lestrigone tinse la bocca del sangue del terzo. Segue noi rapido Antifate, mentre fuggiamo: la folla chiama a raccolta, e la folla concorre scagliandoci contro piante e macigni, e sommerge le navi con i naviganti: quella soltanto fu salva che noi ed Ulisse portava.
Cosi perduta una parte dei nostri, gemendo e imprecando fummo portati alla terra che vedi lontana e che è bene, credimi, disti di qui! Tu, figliuol d'una diva, tu pure,
o dei Troiani il piu giusto, (poiché terminata la guerra dir non ti
debbo nemico) deh fuggi la spiaggia circèa!
Ivi noi pure, ancorata la nave, non dimenticando
né lo spietato Ciclope né Antifate, ci rifiutammo
d'oltre procedere e di visitare l'ignota regione.
I messaggeri si trassero a sorte che andasser da Circe: uno fui io e il fedele Polite ed Euriloco insieme
con nove e nove compagni ed Elpènore, gran bevitore. Come giungemmo alle mura di Circe e di sul limitare di quella reggia sostammo, ci corsero incontro atterrendo innumerevoli lupi con orsi e leoni mischiati coi lupi, ch'erano innocui né ci minacciavano punto ferite.
Anzi agitavano blande le code e con lezi e carezze l'orme seguivano nostre, finché ricevuti noi fummo
dalle fantesche e condotti da Circe per gli atri di marmo. Ella sedeva su trono solenne in bel luogo riposto,
cinta di candida veste con sopra un manto dorato. Ninfe e Nereidi si vedono insieme, ma non con le dita mobili traggon la lana né attorcono i fili seguaci;
piante dispongono, e i fiori che sono senz'ordine sparsi, entro i canestri separano, e l'erbe di vari colori.
Circe presiede a quest'opra, che l'uso ben sa delle piante, sa le virtù delle loro mischianze e con attenzione
pesa ed esamina l'erbe. Vedendoci, si rasserena,
scambia il saluto, ci appaga nei voti e comanda che tosto
mescasi l'orzo bruciato con miele con cacio e buon vino; ma di nascosto v'aggiunge dei succhi di sotto il dolciore. E noi prendemmo le tazze che porse la mano esecranda. Come assetati bevemmo con l'arida bocca, e la cruda
maga toccò con la verga la punta dei nostri capelli,
(anche a ridirlo arrossisco!) divenni di setole irsuto,
più non potei favellare e mandando per voci grugniti rochi sul suolo movevo carponi: sentii che la bocca
mi s'induriva nel grugno, che il collo ingrossava di fibre,
e con le mani, onde presi la tazza poc'anzi, per terra l'orme segnai, e fui chiuso (può tanto quel filtro di lei!) dentro il
porcile con gli altri che s'ebbero uguale la sorte. \Vidi che Eurìloco solo serbava la forma che aveva,
perché non bevve; se avesse bevuto, sarei tuttavia
parte del gregge suino, né Ulisse da lui istruito
a vendicar tanto strazio sarebbe venuto. Il Cillenio
dio pacifero, un fior gli diè bianco, che i numi superni chiamano moly, ed ha nera radice. Protetto l'eroe
da questo fiore e da gli ammonimenti, che diedegli il dio, entra da Circe e invitato a ber l'insidiosa bevanda,
lei respingendo, che d'accarezzargli cercava i capelli
con la sua verga, spaura impugnando la spada. La mano poscia si strinsero in segno di fede; e, nel talamo accolto, chiese i perduti compagni qual dote di quel matrimonio. Fummo spruzzati di succhi benigni d'innocue erbette, fummo percossi nel capo, ma con rivoltata la verga,
e sussurrò degli accenti contrari a quegli altri che disse. Quanto piu mormora Circe, noi più con la fronte da terra dritti sorgiamo: ci cadon le setole, la spaccatura
lascia i piè bifidi, tornan le spalle e le braccia e i lacerti. Noi lagrimando abbracciammo l'eroe, che pure piangeva,
e ci attaccammo al suo collo, e le voci che prime dicemmo testimoniarono quanto gli fossimo riconoscenti.
LA SICILIA SCILLA E CARIDDI
(Enea e i Troiani nel loro viaggio giungono dall’Epiro in Sicila) XIII, vv. 723 - 737)
Entrano nella Sicania sporgente con triplice punta:
Pachino, guarda Austro, che porta la pioggia coi nembi;
Boeo, risponde agli zeffiri dolci; Peloro mira
Aquilone e quell'Orsa che mai non si tuffa nel mare.
Entrano quinci, per forza di remi e con l'onde propizie
Su l’inbrunire toccando la spiaggia sabbiosa di Zancle.
Scilla tormenta la parte di destra, la manca, Cariddi
mai non quieta; ché questa inghiottisce e ributta le navi,
quella si cinge la scura ventraia di cani feroci
e con l'aspetto di vergine; e, se non mentiscono i vati,
anche fu vergine un tempo. La chiesero molti in isposa: sdegnosa di tutti e diletta alle ninfe del mare,
presso di loro soleva recarsi, e narrava gli amori
dei giovinetti delusi………
(XIV, vv. 70-74)
Scilla…come poté primamente
Il Laerziade in odio di Circe spogliò dei compagni.
Pur ella avrebbe ingoiato le navi di tutti i Troiani
Se non si fosse mutata nel sasso che alpestre tuttora
Ivi si leva sfuggito da quelli che corrono il mare.
DANTE - DIVINA COMMEDIA
(Inferno, Canto XXVI, vv. 85-142)
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
Indi la cima qua e là menando,
Come fosse la lingua che parlasse
Gittò voce di fuori, e disse: “Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’il debito amor
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer poter dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola dalla qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Marocco e l’isola de’ Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
Quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
acciò che l’uom più oltre non si metta:
dalla man destra mi lasciai Sibilia,
dall’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti all’occidente,
a questa tanta picciola vigilia
de’ nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion piucciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ala al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte, ‘e il nostro tanto basso,
che non surgela fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tanto casso
lo lume era di sotto dalla luna,
poi che ’ntrati eravam nell’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parsemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
chè dalla nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fè girar con tutte l’acque:
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’Altrui piacque,
infin che ’l mar fu sopra noi richiuso”.
CIRCE
Dante considera Circe una maga capace di mutare gli uomini “in brutti porci”, e “tenerli “in pastura”, perché “più degni di galle che d’altro cibo fatto in uman uso”(Purgatorio, XIV, 42-44). Ma, erroneamente, la considera una Sirena, simbolo dei piaceri dei sensi, dell’avarizia, gola e lussuria, ripugnanti in sé stessi, ma affascinanti nell’apparenza creata dalle passioni, che però rovinano gli uomini:
“Io son” cantava “io son dolce sirena,
che’ marinari in mezzo al mar dismago;
tanto son di piacer a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!”
(Purgatorio, XIX, vv. 19-24)
(“Cantava: “Io sono la dolce sirena che affascino e svio i marinai in mezzo al mare, tanto son piena di piacere che diffondo e comunico a chi mi sente! Io attrassi al mio canto Ulisse, sebbene desideroso di proseguire il suo cammino; e chi si abitua alla mia compagnia, raramente se ne riparte, tanto riesco ad appagarlo tutto quanto!”)
MELCHIORRE TRIGILIA: I VIAGGI E I LUOGHI DI SICILIA
© Centro Studi Helios (Sicilia da Leggere) |