MELCHIORRE TRIGILIA

BASILICA DI S. MARIA MAGGIORE

ISPICA

IL TRIONFO DELL’EUCARISTIA

DI OLIVIO SOZZI

FOTO DI SALVATORE BRANCATI

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PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

 TERZA PARTE

 

III PARTE 

NUOVO TESTAMENTO

 

 

 

CRISTO REDENTORE.

   Cristo è il Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza, alla maniera di Melchisedek (Sal. 110,4) e non di Aronne e dei Leviti (cfr. Ebr. 7, 11-14). Del nuovo, unico, regale, sommo, perfetto, celeste, eterno sacerdozio di Cristo, Mediatore della Nuova Alleanza, parla ampiamente la Lettera agli Ebrei (capp. 7-10).

CRISTO REDENTORE  

 

 

LA MENSA EUCARISTICA

  Nella Sacra Scrittura, dice S. Tommaso, la mensa è triplice: quella dell’antica legge, quella della Nuova Legge evangelica qui raffigurata e quella della patria celeste, di cui è detto in Luca (22, 27-30): “Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno…” (terreno, della grazia e celeste della gloria).

   La mensa è anche altare dove i sacerdoti della Nuova Alleanza rinnovano in modo incruento il sacrificio di Cristo, cioé la sua passione, morte e resurrezione. Ed è anche il nuovo altare che hanno i cristiani, come dice l’Apostolo (cf. Ebr. 13,10), dove confessano ed espiano i loro peccati e offrono “il sacrificio di lode a Dio, cioé il frutto di labbra che confessano il suo nome” (Ebr., 13,15).

 

LA MENSA EUCARISTICA

 

 

CALICE CON OSTIA – CROCE – CORONA – TUNICA

 

   Sopra l’altare sono poggiati gli oggetti della passione: la croce, la corona di spine e anche il mantello di porpora rosso, che gli avevano messo addosso i soldati, come re dei Giudei (cf. Giov. 19,2-3); o forse meglio “la tunica, senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo” (Giov. 19,23), che è simbolo della Chiesa (unica per volontà di Cristo, secondo il suo “Ut unum sint” (Giov. 17, 11.22),  ed allude al sacerdozio di Cristo in Croce, perché l’abito del sommo sacerdote ebraico doveva essere senza cuciture.  

   Nel calice con sopra l’ostia consacrata, c’è il riferimento all’istituzione dell’Eucaristia, con la transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e sangue di Cristo (Matt., 26, 26-28. Mc., 14,22-24. Luc., 22,20.  1Cor., 10, 16. 11, 23-25).

 

CALICE CON OSTIA – CROCE – CORONA - TUNICA

 

  

L’AGNELLO SACRIFICATO

   Riguardo all’agnello sacrificato, raffigurato sopra la mensa, sgozzato e col fiotto di sangue,  bastano solo i titoli degli argomenti ampiamente trattati da S. Tommaso. L’Agnello pasquale era il principale sacramento della vecchia legge e rappresenta la passione di Cristo. Egli è detto “Agnello” per tre motivi: per la purezza della vita immacolata, per la mansuetudine della morte, per l’espiazione dei peccati dell’uma-nità. Il pasto dell’agnello pasquale, come ordinato da Jahvè per mezzo di Mosè agli Israeliti, prefigurava il nutrimento del Corpo di Cristo. Con ciò era significato che l’oblazione dell’agnello vero, cioé di Cristo, era il sacrificio che perfezionava e sostituiva tutti gli altri.

 

L’AGNELLO SACRIFICATO

 

 

IL PANE IL VINO GLI AGNELLI

 

Nei pani  e nel vaso del vino del cesto, c’è un riferimento al Vangelo di Giovanni (6, 48ss.): “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo… non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.”

   Gli altri tre agnellini vivi posti accanto alla cesta indicano i fedeli cristiani. Essi sono infatti spesso chiamati agnelli dai Profeti (cf. Ezec. 34,11-15; Sal. 23,2; Is. 40,11) e specialmente da Cristo stesso, Buon Pastore (Giov. 10, 3-11; 21,17).


PANI – VASO DEL VINO – AGNELLI

 

GLI EVANGELISTI

    Sotto la sacra mensa, ci sono i simboli dei quattro evangelisti (non si vede il toro di S. Luca). Il riferimento è ai “quattro esseri viventi, pieni di occhi davanti e di dietro” del profeta Ezechiele (1,5) e all’Apocalisse (4,7-8): “Il primo ..simile ad un leone; il secondo.. aveva l’aspetto di un vitello, il terzo d’uomo, il quarto era simile ad un’aquila mentre vola”. La tradizione cristiana, da S. Ireneo in poi, vi ha visto raffigurati i quattro Evangelisti. Spieghiamo il simbolismo sulla scorta dei Padri e di S. Tommaso. S. Matteo e figurato dall’uomo, perché comincia il suo vangelo dalla generazione umana di Gesù Cristo; e si attacca soprattutto a ciò che riguarda l’umanità di Cristo. S. Marco al leone perché si estende di più sulla resurrezione di Cristo, del quale è detto nell’Apocalisse (5,5): “Ha vinto il leone della tribù di Giuda”: risuscitando infatti ha vinto la morte e l’altro “leone ruggente”, il demonio. S. Luca per il toro, perché comincia dal racconto di un sacrificio e tratta del sacerdozio di Cristo; il toro infatti era la vittima maggiore immolata dai sacerdoti dell’Antico Testamento. S. Giovanni è l’aquila perché comincia il suo vangelo dalla divinità del Verbo e col volo e lo sguardo dell’aquila, si leva in alto e fissa gli occhi acutissimi del suo cuore sul sole Cristo.

 

 

IL LEONE DI S. MARCO

 

L’ANGELO DI S. MATTEO

L’AQUILA DI S. GIOVANNI

 

 

GLI APOSTOLI

S. PIETRO

   Gli Apostoli raffigurati sono in tutto undici: cinque davanti S. Pietro, e cinque sotto il Cristo;  manca evidentemente Giuda il traditore.  

   La figura dominante in primo piano è il Principe degli Apostoli, S. Pietro, che ha lo sguardo rivolto agli agnellini e alla mensa eucaristica, ed ha le chiavi in mano: il riferimento è alle parole del Signore: “Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa…A te darò le chiavi del Regno dei Cieli…(Matt. 16,18-19); e: “Simone di Giovanni, mi ami tu?... Pasci i miei agnelli… Pasci le mie pecorelle” ( Giov. 21, 15-17).

 

S. PIETRO

 

ANDREA MATTEO E SIMONE CANANEO

   Alla destra di S. Pietro, c’è il fratello Andrea che ha in mano un’astra con un grande amo ad uncino per la pesca, perché ad essi, che erano pescatori, il Signore aveva detto (Matt. 4, 19): “Seguitemi vi farò pescatori di uomini”. Andrea ha il viso rivolto a Matteo che ha il libro del Vangelo in mano, nel cui capitolo quarto si parla della vocazione di Pietro e Andrea.

   Sopra Andrea c’è Simone Cananeo, detto lo Zelota, cioè “difensore delle paterne tradizioni”, con mani giunte e sguardo rivolto in alto.

 

 

ANDREA MATTEO E SIMONE CANANEO

 

TADDEO E GIACOMO IL MINORE

   A destra di Matteo ci sono le piccole teste affettuosamente accostate di un anziano con capelli e barba bianca e di un giovane. Vi  possiamo riconoscere, nel primo Taddeo, chiamato da Luca (6,6) anche Giuda di Giacomo (cioè fratello non figlio, perché entrambi figli di Alfeo); nel secondo appunto Giacomo, detto “il Minore” (per distinguerlo da Giacomo il “Maggiore”, fratello di Giovanni ed anche dal fratello Taddeo-Giuda). Infatti Giuda, all’inizio della sua Lettera Apostolica si dichiara: “Giuda servo di Cristo, fratello di Giacomo”. Ecco perché hanno differente età e sono affettuosamente uniti.

 

 

TADDEO E GIACOMO IL MINORE

 

 

 

S. GIOVANNI

     S. Giovanni ha le sembianze del giovane prediletto da Gesù; sta ai suoi piedi in devota  adorazione, perché egli era il discepolo “che Gesù amava e si trovava a tavola al suo fianco”  (Giov. 13,23) nell’Ultima Cena, in cui Cristo istituì il Sacerdozio e l’Eucaristia.

   Sotto di lui ci sono le piccole testoline degli altri quattro discepoli. Il più vicino a Giovanni è il fratello Giacomo, “il Maggiore”; ambedue sono chiamati da Cristo “Figli del tuono” (Mc. 3,17). Dietro, a stento visibili, ci sono: Filippo, oriundo anche lui da Betsaida, Bartolomeo, detto anche Natanaele e Tommaso, detto “Didimo”, forse suo fratello, perché Didimo” significa “gemello”. 

 

S. GIOVANNI

 

 

GIACOMO IL MAGGIORE - FILIPPO – BARTOLOMEO E

TOMMASO

 

S. PAOLO

   Il Sozzi ha aggiunto, dietro S. Pietro, S. Paolo, l’Apostolo delle Genti, riconoscibile per il libro delle sue Lettere in mano, per la Spada della divina Parola (cfr. Ef. 6,17), di cui impugna l’elsa e per i caratteri costanti della sua fisionomia: fronte alta, naso aquilino, capelli e barba scuri.   Egli stesso infatti si dichiara “servo di Dio, Apostolo scelto non dagli uomini ma da Gesù Cristo stesso (cf. 1Cor. 9,1; Gal. 1,1; 1Tim. 2,7. 2Tim., 1,11; Tit., 1,1).

 

S. PAOLO

 

LA MADONNA

   La Madonna, raffigurata con veste bianca e splendido manto azzurro, è in ginocchio con lo sguardo supplice rivolto al Figlio e Signore suo, Gesù. E’ Lei la Mediatrice di tutte le grazie, che intercede per tutti i Cristiani, il Corpo Mistico di Cristo, anch’essi figli suoi, da Lei generati. E’ Lei la “Vergine Madre, figlia del suo Figlio, umile ed alta più che creatura…In te misericordia in te pietate, in te magnificenza… Li occhi da Dio diletti e venerati all’eterno lume si drizzaro…” (Dante). 

LA MADONNA

  

 

 

MADDALENA - MARTA E MARIA

    Le tre donne effigiate dietro la Madonna sono la Maddalena, e Marta e Maria sorelle di Lazzaro. La Maddalena ha il capo velato, il volto e  lo sguardo di penitente; a lei il Signore ha perdonato “i suoi molti peccati perché ha molto amato” (Luc. 7,47). Marta col capo chino rivolto alle cure terrene, è simbolo della vita attiva e Maria con lo sguardo rivolto a Cristo, simbolo della vita contemplativa. Il riferimento è alle parole di Cristo (Luc. 10, 41-42): “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola cosa è necessaria: Maria si è scelta la parte migliore che non le sarà tolta”. Maria ha in mano un vaso di profumi: è l’olio profumato di prezioso nardo con cui cosparse i piedi di Gesù e li asciugò coi capelli (cfr. Giov. 12, 3). 

MADDALENA - MARTA E MARIA

 

L’ETERNO PADRE E LO SPIRITO SANTO

   In alto, nei cieli con le lievi nuvole evanescenti e dorate dell'empireo, ci sono  l'Eterno Padre, raffigurato secondo l’iconografia tradizionale, come venerando vecchio,  e lo Spirito Santo in forma di colomba, come avvenne nel Battesimo di Cristo: “Scese su di lui lo Spirito Santo, in apparenza corporea come di colomba (Luc. 3,22).

 

L’ETERNO PADRE

 

 

LA COLOMBA DELLO SPIRITO SANTO

 

NOTA STORICA SUL “TRIONFO DELLA MENSA EUCARISTICA

    L. Vigo (Memorie, 573) così dice del quadrone dipinto dal Vasta nella volta della Chiesa del Suffragio nel 1751: “E’ mirabile per colorito perfetto e così diafano e fuso che l’olio vince d’assai; ma Vasta con mano vile lo copiò dalla Chiesa di S. Giacomo La Marina in Palermo, ove lo dipinse O. Sozzi nel 1729; ed il Sozzi lo ebbe da Corrado Giaquinto, né altrimenti potea ciò avvenire, perché non lo dotò natura di mente così alta, onde sentire tanto innanzi nell’arte. Né di Paolo né di alcun artista abbiam mai veduto affresco colorito con tanta gaiezza, molto più nel suo basso, e sembra che l’autore avesse voluto compensare con l’eccellenza del colorito la mancanza di originalità, e quasi insegnare a Sozzi come avrebbe dovuto di pingerlo”. Nella nota 36 aggiunge: “Il Cav. Palermo (Guida istruttiva…) reputa essere opere del D’Anna le pitture a fresco di S. Giacomo alla Marina. A veder quanto ciò è erroneo, basta sapere essere state fatte nel 1729, anno nel quale nacque Vito D’Anna. Sono quegli affreschi opera di Olivio Sozzi e il modello del quadrone della navata gli fu inviato da Corrado Giaquinto da Molfetta ed oggi trovasi in potere degli eredi del Dott. Giorgio di Mauro in Acireale”.  

   Giuseppe Contarino e Alfonso Sciacca ( Omaggio a P. P. Vasta, pp. 222-237 e 283-293), non accettano la notizia del Vigo, che pure l’aveva avuta dai fratelli Manno, discepoli del D’Anna. Attribuiscono il quadrone di S. Giacomo al Sozzi ma lo datano al 1750, un anno prima di quello del Vasta, che comunque avrebbe ripreso lo stesso soggetto, come alcuni anni dopo farà lo stesso Sozzi a Ispica in S. Maria Maggiore.

   Invero il Mongitore (Le parrocchie, 139), attribuisce a Gaspare Serenarlo gli affreschi di S. Giacomo e dice: “La storia della volta colli due quadri collaterali a fresco e le due medaglie di S. Giacomo e S. Agostino sono del nostro palermitano Gaspare Sereniani (Serenario). La dipintura della volta è invenzione ideale del Parroco Serio, ad esprimere il Trionfo del SS.mo Sacramento. Si vede in essa l’Eterno Padre in atto di ricevere da Maria Vergine un agnello scannato , ma vivo. Dietro la Vergine si vedono in un coro le cinque sante vergini: Agata, Ninfa, Oliva, Rosalia palermitane e S. Cristina, antica patrona di Palermo. Pur dietro la Vergine, ma in lontananza, si vedono i Profeti ed in fondo li SS. Apostoli. A lato dell’Eterno Padre, S. Michele Arcangelo con bandiera alla destra, in cui è dipinta la sfera, o ostensorio del SS.mo Sacramento: è con uno scudo alla sinistra con entro un calice con in bocca l’ostia….”.

   Anche il Salemi (1885, pp. 256s.) segue il Mongitore e dice che “gli affreschi della volta, rappresentanti il Trionfo dell’Eucaristia, vennero dipinti dal pittore palermitano Gaspare Serenarlo”; del Sozzi erano invece “gli otto quadri che ornavano gli altari e le pareti dell’abside”. 

   Dunque questa “invenzione” del Parroco Serio era del tutto diversa da quella in seguito realizzata dal Sozzi e dal Vasta, sulla base del bozzetto donato dal Giaquinto.

   Ma dalle altre fonti sappiamo che, intorno al 1726, essendo cresciuta la notorietà del Sozzi, già pittore affermato di 36 anni, Don Angelo Serio gli commissionò la decorazione in affreschi e tele della Chiesa. Ne abbiamo conferma non solo dal citato Vigo, ma anche dal Di Giovanni (ms., fI°, 5r.) e dal Bertini (1830), che dice: “A Roma strinse amicizia in particolar modo con Corrado Giaquinto, pittore di Molfetta, il quale,"affezionandoseli non lasciava di invitarlo a casa sua e spesso lo regalava di qualche sua composizione, che a suo tempo Olivio utilizzò per la volta di S. Giacomo".

   La vasta e ardita opera, portata avanti negli anni '26-'29 e quindi interrotta, per recarsi a Roma alla scuola del Conca, sarà poi completata 14 anni dopo, nel 1743 con la pittura della volta della navata, secondo il bozzetto avuto dal Giaquinto; il 1743 è l’anno della morte del Mongitore, che perciò non ne parla.  

   Secondo noi il contrasto fra le citate fonti, si può risolvere soltanto  in questo modo. Anzitutto è da scartare l’ipotesi inverosimile dell’esistenza nella detta Chiesa di due diversi dipinti, uno del Serenario e l’altro del Sozzi (come pensa la Genova, I disegni…,433);  ed anche che Olivio abbia nel 1729 iniziato e poi interrotto il dipinto, perché l’affresco o si completa subito sull’intonaco fresco o deve essere distrutto. Non resta altro se non che il dipinto del Serenarlo realizzato nel 1729, venne rimosso e rifatto dal Sozzi nel 1743. Infatti da una parte non possiamo negar fede alla precisa testimonianza del Mongitore, che attesta l’esistenza dell’affresco e la sicura attribuzione al Serenario, dall’altra le altre autorevoli testimonianze del Vigo  e degli altri studiosi palermitani che avevano certamente visto, non  quello descritto dal Mongitore, ma quello poi realizzato anche dal Vasta e dallo stesso Sozzi! Bisogna infatti rilevare che il “Trionfo dell’Eucaristia” descritto dal Mongitore è del tutto diverso da quello affrescato sia dal Vasta ad Acireale che dal Sozzi ad Ispica, entrambi quasi identici e conformi, con poche varianti, ai bozzetti a noi pervenuti.

   E’ però da correggere la data del 1729 dell’affresco di S. Giacomo, data dal Vigo, e così sciogliere i dubbi dei due studiosi acesi, perché esso non poté essere realizzato in quell’anno, in cui il Sozzi conobbe il Giaquinto a Roma. Il primo affresco era stato ideato certamente non dal pittore Serenario, ma dal dotto Parroco Serio; il secondo, rielaborato e migliorato di molto  rispetto al precedente, da uno o più teologi romani esperti in Sacra Scrittura e nell’ermeneutica simbolica dei Padri e Dottori della Chiesa. Il Giaquinto probabilmente realizzò il bozzetto nel 29 e lo donò  al Sozzi, che, dopo il suo rientro in Sicilia intorno al 1743, lo fece vedere al Parroco Serio, il quale dovette considerarlo superiore al suo e del Serenario e diede disposizione ad Olivio di rimuovere il precedente ed affrescare il nuovo, completando la decorazione della volta.

 

I BOZZETTI DELLA “MENSA EUCARISTICA” ED IL CONFRONTO COL VASTA.

   Non è noto il bozzetto originale del Giaquinto; ma devo dire che qualche anno fa ho ricevuto una telefonata da un mercante d’arte di Molfetta, la città natale del Giaquinto, il quale diceva di possederlo e intendeva venderlo. Io, pur nel dubbio sulla sua autenticità, ho cercato dei possibili compratori ma, dato il prezzo richiesto molto elevato (120.000 euro), non ho trovato nessuno disposto a comprarlo. 

   Abbiamo però due copie quasi identiche, una nel Museo di Termini Imerese ed una al Louvre di Parigi. Sono entrambe attribuite dagli studiosi, compresi il Fittipaldi (1977) ed il Rosenberg (1982), che li hanno pubblicate, al Sozzi. E’ verosimile che una fu data dal Sozzi al Vasta che se ne servì per l’affresco di Acireale; alla fine dell’Ottocento, come dice il Contarino, fu ceduta a un collezionista francese ed in seguito donata al Louvre. L’altra fu certamente portata ad Ispica dallo stesso Sozzi, per riprodurla nel grande quadrone di S. Maria, secondo la tecnica ben descritta da P. Fedele. E’ credibile che, tramite qualche altro amante dell’arte, sia poi pervenuta nel 1859 alla biblioteca Laciniana di Termini Imerese e da questa al Museo Civico. Inaccettabile l’attribuzione del bozzetto al D’Anna o al Conca, proposta dagli antichi inventari del Museo.

 Non è infatti attendibile l’attribuzione a Vito D’Anna, proposta anche dal Contarino e da Sciacca, per il semplice fatto che il D’anna non realizzò né affreschi né pale d’altare con questo soggetto; d’altronde il Vigo non avrebbe certo trascurato di dirlo, trattandosi del miglior discepolo del “suo” Vasta, che poi superò il maestro! Le “profonde differenze” fra il bozzetto di Termini e il quadrone di Ispica, che il Fittipaldi, seguito dallo Sciacca (p. 291), pretende di “registrare puntualmente”, basate non sul disegno e le figure, che sono identiche, ma solo sul cd. “ductus”, “cioè la maniera e l’andamento pittorico” del bozzetto, le cui “belle qualità coloristiche” sarebbero tradotte nell’affresco con una “fredda chiarità di toni”, sono gratuite e inesistenti; sia per le diversità che, come nota bene P. Fedele, ci sono quasi sempre fra il piccolo bozzetto e il grande affresco, sia perché l’affresco di S. Maria Maggiore (che il Fittipaldi, il Rosenberg, il Contarino e lo Sciacca dimostrano di non aver ammirato ad Ispica!), lungi dall’essere “intonato ad una fredda chiarità di toni”, dimostra un’intensità, varietà e splendore di colori, ancora immutati dopo più di due secoli e mezzo!

Invero l’affresco del Vasta non regge il confronto; infatti, non possiamo certo accettare la lettura del Vigo: “E’ mirabile per colorito perfetto e così diafano e fuso che l’olio vince d’assai… Né di Paolo né di alcun artista abbiam mai veduto affresco colorito con tanta gaiezza, molto più nel suo basso, e sembra che l’autore avesse voluto compensare con l’eccellenza del colorito la mancanza di originalità, e quasi insegnare a Sozzi come avrebbe dovuto dipingerlo”.  Dal confronto invero delle due opere risulta evidente invece che i colori del Vasta sono non “diafani” ma tenui e slavati, senza quelle velature e ritocchi ripetuti, come dice P. Fedele, anche quattro o cinque volte, specie per rendere perfetto il roseo dei volti femminili; così ha certamente fatto il Sozzi, raggiungendo lui “l’eccellenza del colorito” e superando notevolmente in questo affresco il Vasta, a cui poteva far da maestro!

   Notiamo ancora che le differenze nel disegno fra i due affreschi, puntigliosamente rilevate dal Contarino, sono di scarso o nessun rilievo per il giudizio estetico. Per il simbolismo del grande affresco, mentre lo Sciacca si limita ad alcune figure, noi, per la prima volta dopo 250 anni ca. facciamo una “lettura” corretta, completa e dettagliata.

   La Siracusano (La Pittura Italiana del Settecento, 1989, p. 522) dà notizia di un terzo bozzetto “sul mercato antiquario di Palermo”. Questo bozzetto, acquistato dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Palermo  nel 1993, dalla collezione di Giulio Torta è stato pubblicata da Elvira D’Amico in Per Citti Siracusano – Studi sulla Pittura del Settecento in Sicilia, pp. 161-164, Messina, 2012. Un giudizio simile a quello dato sul bozzetto di Termini Imerese, possiamo dare su quest’altro bozzetto e sui suoi presunti pregi, secondo la d’Amico: “Una materia pittorica più sapida e concentrata rispetto all’affresco (di Ispica), un’esecuzione rifinita e accurata…la pregnanza dei colori caldi e accesi, il sapiente gioco di luci e ombre…”. A noi invero i colori sembrano scuri e poco luminosi. Riguardo alle figure, notiamo che accanto al Padre eterno mancano gli angeli; il volto del Mosé è scuro e piegato verso il basso nel bozzetto, è invece luminoso e maestoso nell’affresco della Basilica di S. Maria Maggiore. 

 

MELCHIORRE TRIGILIA

 

MELCHIORRE TRIGILIA: IL TRIONFO DELL'EUCARESTIA

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